Il narratore francese Sylvain Prudhomme, ospite del recente Salone del Libro di Torino - Pasquale Juzzolino
A sentire il nome del poeta Paul Claudel, lo scrittore francese Sylvain Prudhomme si lascia sfuggire un sorriso ancora più cordiale del solito. «Analogie con L’annuncio a Maria, dice? No, a quello non avevo pensato. Ma ci sono altri riferimenti, questa volta intenzionali. La scarpetta di raso, anzitutto. E Partage de midi » . Sono i drammi dell’amore assoluto e della fedeltà impossibile, della crisi coniugale e della tenerezza, tutti temi squisitamente claudeliani che ora riecheggiano, in modo tanto imprevisto quanto riconoscibile, in Vite di passaggio ( traduzione di Anna D’Elia, 66thand2nd, pagine 272, euro 16,00, in libreria da domani), secondo romanzo di Prudhomme a uscire in Italia dopo il fortunato I più grandi. Narrata in prima persona da Sacha, scrittore a sua volta oltre che artista concettuale, è la storia di un suo amico di gioventù, un autostoppista senza nome che, ormai adulto, continua a spostarsi da una parte all’altra della Francia facendo affidamento sulla disponibilità degli automobilisti. L’autostoppista ha una casa, una moglie che si chiama Marie e un figlio, Agustin. Ma come per Anna Vercors, che nell’Annuncio a Maria è il padre di Violaine, anche per l’autostoppista il richiamo della strada resta troppo forte. Con la differenza che il personaggio di Claudel parte pellegrino per Gerusalemme, mentre il protagonista di Vite di passaggio sembra vagare senza meta. «In realtà le due esperienze non sono così distanti – avverte Prudhomme, nato in Francia nel 1979 e a lungo residente in Africa –. C’è un elemento mistico che le ac- comuna, in una prospettiva che si oppone radicalmente alle logiche del mondo contemporaneo ».
In che senso?
L’autostoppista non si comporta come un uomo di oggi, è sempre fuori fase rispetto al suo tempo. Sembra uscito da una leggenda medievale, appunto, oppure dalle cronache dei primi francescani. La sua è una mentalità analoga a quella di Don Chisciotte, che si ostina a difendere gli ideali cavallereschi quando la cavalleria non è più che un ricordo. Entrambi, Don Chisciotte e l’autostoppista, seguono, in maniera nascosta e addirittura involontaria, un cammino di santità.
E Sacha?
Sacha, come Marie, appartiene pienamente alla realtà del suo tempo. La loro non è una posizione confortevole, perché li obbliga a fare i conti con tante contraddizioni che l’autostoppista non avverte neppure. Il più consapevole della complessità della situazione è Sacha, ma Marie non è meno concreta di lui. Ed è più libera.
I punti di vista dei tre personaggi si intrecciano senza soluzione di continuità...
Era l’effetto che volevo ottenere, specie per quanto riguarda la figura dell’autostoppista, che agli occhi degli altri può apparire un egoista, determinato a seguire il proprio desiderio interiore rispondendo solo a sé stesso. Ma via via che il racconto procede, ci si accorge che la questione non è così semplice. L’autostoppista si sottrae alla quotidianità, è vero, ma non lo fa per sé solamente. Semmai, vuole darsi agli altri, con generosità. Vuole trovare il modo per essere di tutti, fondando una comunità ancora più ampia della famiglia alla quale pure non smette di appartenere.
Da qui il finale inatteso?
Quel finale l’avevo in mente fin dal principio e per me rimane l’unico immaginabile. Mi pare che nelle ultime pagine le due strade, quella dell’autostoppista e quella di Sacha, vengano finalmente a coincidere. Si tratta di opzioni contrastanti, entrambe annidate in ciascun essere umano. Sono due diversi sguardi poetici sulla realtà.
Lei da che parte sta?
Difficile rispondere. L’autostoppista rappresenta un modello affascinante, senza dubbio, ma alla lunga corre il rischio di restare imprigionato nel suo sogno di libertà. Allo stesso modo, trovo che in Sacha agisca una declinazione peculiare del coraggio, quella che consiste nell’accettare e, per quanto possibile, risolvere la complessità della vita quotidiana. Marie abbraccia la realtà nella sua interezza e per questo, come dicevo, è veramente libera.
Da dove viene l’idea dell’autostop?
Dal fatto che io stesso l’ho praticato per parecchio tempo, imparando moltissimo. Si conoscono persone di tutti i tipi, diversissime tra di loro, eppure disposte a esercitare una forma particolarissima di ospitalità. È qualcosa che stupisce e che finisce per far passare in secondo piano anche le divergenze ideologiche più accentuate. Ci si imbatte anche in chi, in altre circostanze, non aprirebbe mai la porta di casa a uno sconosciuto, ma per qualche strano motivo non si preoccupa di condividere con un estraneo lo spazio angusto di un abitacolo d’automobile. Un’azione toccante nella sua essenzialità, perché va nella direzione della concretezza, dell’accoglienza e, di nuovo, della libertà. La nostra società è dominata dalla paura, tornare ad avere fiducia gli uni degli altri è l’unica speranza di non restare intrappolati in noi stessi.