De Gasperi durante un comizio - Ansa
In questi giorni numerose celebrazioni stanno ricordando la figura di Alcide De Gasperi in occasione dei 70 anni della morte. Né potrebbe essere altrimenti, se si considera quanto lo statista trentino sia stato protagonista di pagine fondamentali della storia del nostro Paese quale membro dell’Assemblea costituente e Presidente del consiglio ininterrottamente dal 1945 al 1953, alla guida di otto esecutivi (fra cui, nel 1946, l’ultimo del Regno d’Italia e il primo della neonata Repubblica). Dal dramma della fame nell’immediato dopoguerra, all’amara firma dei trattati di pace fino alla faticosa ricostruzione e alla “costruzione” dell’assetto democratico del nostro Paese, non c’è aspetto che non abbia visto De Gasperi protagonista. Sono innumerevoli gli episodi che si possono ricordare sul suo conto. Ce ne sono tuttavia due in particolare che, sebbene relativamente poco noti, sono straordinariamente significativi per descrivere la visione politica e il senso delle istituzioni di De Gasperi. Sono parole, infatti, che rappresentano l’invito – valido ancora oggi – ad assumerci la responsabilità del nostro Paese e a prenderci cura della nostra comunità. Ciascuno di noi nel luogo e nel tempo che ci è dato. Negli anni Trenta del Novecento il Partito popolare è stato già messo fuori legge da una decina d’anni e De Gasperi è un semplice impiegato della Biblioteca vaticana, tagliato fuori dalla politica. Un gruppo di amici va a trovarlo, si parla della situazione del Paese. Il fascismo è all’apice del consenso, sembra indistruttibile, eppure De Gasperi si lascia andare a una considerazione, all’apparenza insensata: «Dobbiamo preparaci». «A cosa?» gli chiedono sorpresi gli amici. Risposta: «A quello che verrà dopo». De Gasperi aveva visto lontano, aveva intuito il catastrofico esito finale del regime, iscritto nel suo codice genetico, ben prima della guerra. E quel suo «dobbiamo preparaci» è una preoccupazione lungimirante e vincente, che ognuno dovrebbe tenere presente ancora oggi per le responsabilità o le scelte che la vita può chiamarci a fare. Quell’esortazione vale per ogni epoca e per ogni latitudine, perché ognuno deve sentire sulle spalle la responsabilità del proprio Paese e contribuire al suo progresso, come ci invita a fare la Costituzione. Ognuno di noi deve prepararsi, anche semplicemente alla scoperta di quei nuovi orizzonti o alle occasioni che la vita può metterci di fronte.
La tomba di De Gasperi in San Lorenzo fuori Le mura - Siciliani
Già questo primo episodio ci restituisce un’immagine di De Gasperi diversa da quella che giganteggia nel palcoscenico della storia e alla quale siamo abituati. È un uomo che, in quel momento, non sapeva come sarebbe andata a finire, quali scenari si sarebbero aperti. Un uomo che viveva quei giorni con tutte le difficoltà che la vita gli aveva messo di fronte. Eppure, profondamente consapevole della responsabilità che grava su ognuno di prepararsi al domani e di essere pronti.
Dopo una decina d’anni o poco più, la “profezia” di De Gasperi si è avverata. È la primavera del 1946, il fascismo è caduto, l’Italia è in macerie ma libera e adesso si tratta di scegliere: monarchia o repubblica? In un comizio a Roma, alla Basilica di Massenzio, De Gasperi sostiene che «la domanda è posta male, troppo semplicisticamente». A suo avviso, «la domanda vera è questa: volete instaurare la Repubblica, cioè, vi sentite capaci di assumere su voi, popolo italiano, tutta la responsabilità, tutto il maggior sacrificio, tutta la maggiore partecipazione che esige un regime, il quale fa dipendere tutto, anche il Capo dello Stato dalla vostra personale decisione, espressa con la scheda elettorale?». Una risposta positiva significava per De Gasperi un «impegno solenne, definitivo per voi e per i vostri figli di essere più preoccupati della cosa pubblica di quello che non siete stati finora, […] d’aver consapevolezza che essa è cosa vostra e solo vostra, di dedicarvi ore quotidiane di interessamento e di lavoro».
Conosciamo l’esito di quel referendum, ma quell’interrogativo posto da De Gasperi è valido ancora oggi. Perché anche se siamo formalmente cittadini, non vuol dire che non ci si possa comportare da sudditi. Quando volgiamo la testa dall’altra parte fingendo di non vedere; quando incrociamo le braccia, lasciando che le cose vadano come vanno; quando ci lasciamo trascinare dalla corrente, senza provare a fare la nostra parte; quando addebitiamo la responsabilità di quello che non va a qualcun altro, a chi ha responsabilità pubbliche, ma senza sentirci in alcun modo responsabili della nostra fetta di comunità, di Paese.
I sudditi possono fare spallucce e rimanere a braccia conserte dando la responsabilità al monarca, ma i cittadini non hanno questo alibi. Siamo tutti responsabili di quello che non ci piace nella nostra società.
Preparazione e partecipazione, insomma, sono aspetti che ancora oggi interpellano tutti con forza e urgenza. Non a caso, proprio questi due argomenti sono stati alcuni dei principali che hanno animato la Settimana sociale dei cattolici, svolta a Trieste lo scorso luglio con un programma esplicito fin dal titolo: “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”.
Ancora oggi, in una comunità democratica, “preparare il futuro” è un tema essenziale che ci richiama al dovere civico di prendersi cura della fetta di Paese attorno a noi, nella convinzione che non possa esserci vero benessere individuale se questo è selettivo e non coinvolge tutti.
Sotto questo profilo, per usare la bella espressione impiegata dal cardinale Zuppi, col loro slancio e impegno i cattolici possono davvero essere «artigiani di democrazia, servitori del bene comune». Lo Stato, del resto, non si riduce solamente al funzionamento delle istituzioni. Lo Stato siamo tutti noi, con le scelte che compiamo ogni giorno, in famiglia, a scuola, al lavoro e nella nostra comunità. Ed è per questo che le parole di De Gasperi risuonano ancora oggi con tanta forza. Perché rappresentano un invito, quanto mai moderno, a fare tutti la nostra parte e a essere preparati e pronti.