domenica 8 novembre 2015
​L'idea e l'evoluzione della cultura figurativa in Europa: parla lo storico dell'arte Hans Belting che giovedì riceverà il premio Balzan
Hans Belting: «Le immagini sono il volto della storia»
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Difficile dire già se ci sia una storia dell’arte pre e post Hans Belting, ma è fuori di dubbio che lo studioso tedesco, nato nel 1935, ha allargato e per molti versi rivoluzionato i confini di una disciplina antica e ricca di padri illustri. È dunque «per il suo notevolissimo contributo agli studi della cultura figurativa e della funzione delle immagini nel mondo occidentale» che Belting il prossimo 13 novembre riceverà a Berna il premio Balzan. Hans Belting nasce come storico dell’arte medievale bizantina e occidentale, ma nel corso della carriera ha ampliato lo sguardo rispetto alle ricerche specialistiche per disegnare un nuovo approccio alla storia dell’arte. È uscito dalla categorizzazione cronologica per ricostruire la trasversalità di archi strutturali su cui si è costruito l’immaginario della cultura europea, individuandone intersezioni e punti di rottura. Una storia dell’arte che diventa storia e teoria dell’immagine, dalla tarda antichità ai nuovi media esplorati dall’arte contemporanea. Tra i suoi libri, considerati già dei classici, sono stati tradotti in Italia Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, Antropologia delle immagini e Facce. Una storia del volto (editi da Carocci) o ancora La vera immagine di Cristo (Bollati Boringhieri).

Professor Belting due suoi libri portano come titolo La fine della storia dell’arte. Che cosa voleva intendere?

«Volevo dire che il modello della storia dell’arte così come era stato formulato doveva essere modernizzato, per rispondere ai cambiamenti della contemporaneità. Negli anni 80 apparve chiaro che sarebbe stato impossibile circoscrivere l’arte contemporanea negli schemi consolidati della storia dell’arte. Si faceva arte, ma senza storia dell’arte. Per questo nel 1983 scrissi Das Ende der Kunstgeschichte? (tradotto in italiano nel 1990 come "La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte?", ndr). Dieci anni dopo ho scritto un libro differente, Das Ende der Kunstgeschichte, senza punto di domanda, inedito in Italia. Allora ero già all’interno del dibattito sulle pratiche contemporanee e mi rendevo conto che stavano nascendo nuove domande sulla storia dei media e l’iconologia. A dispetto dello stesso titolo, quindi, sono libri differenti. Poi c’è un terzo passo, il volume Art History after Modernism, uscito direttamente in inglese e molto tradotto, anche in cinese (non ancora in italiano, ndr). In questo libro sostengo che la storia dell’arte non è finita, ma si trova in un tempo nuovo ed è invitata a un nuovo inizio. C’è poi un quarta tappa, ed è legata alla globalizzazione. Due anni fa ho pubblicato The Global Contemporary and the Rise of the New Art Worlds, già considerato uno testo fondamentale sulla condizione attuale dell’arte. Quello che ho condotto negli ultimi 30 anni è stato dunque un ampio processo di ripensamento integrale della storia dell’arte».

Come le sue idee sono state accolte dagli altri storici dell’arte?

«I miei libri sono tradotti in 20 lingue e sono seguito in molti Paesi: in Brasile, ad esempio, c’è un nuova scuola che segue le mie idee e in Cina sono molto felici che ci sia un nuovo approccio alla storia dell’arte a cui loro possono partecipare. Ma le mie idee sono ancora un tema controverso. Eppure se fai storia dell’arte nel mondo contemporaneo ti devi porre nuove domande. Non sono interessato alla storia dell’arte come campo o come disciplina quanto piuttosto alla storia dell’arte in relazione al presente».

E qual è il posto della storia dell’arte nel mondo attuale?

«La storia dell’arte non è più sola. Ora abbiamo come rivale diretta una nuova disciplina chiamata "estetica". Penso che la storia dell’arte non possa più restare isolata, ma le si devono affiancare altre discipline come la storia delle letterature e delle religioni, la filosofia e così via».

Ha avuto maestri, reali o ideali, nel dare forma al suo nuovo punto di vista sull’arte?

«Li dovrei cercare in campi differenti dalla storia dell’arte. Penso ad antropologi come Marc Augé e Jean Pierre Vernant a Parigi o filosofi come Arthur C. Danto a New York. Con loro ho sviluppato un dialogo fin dagli anni Ottanta. Ma non sono maestri quanto piuttosto partner nella discussione».

Nei suoi studi si è concentrato sul sacro e sui ritratti. Nell’arte moderna e contemporanea non è infrequente trovare artisti che si rappresentano in figura di Cristo. Sono un punto di congiunzione tra sacro e ritratto?

«Il volto di Cristo nasce come un ritratto. È stato sviluppato nella tarda antichità nell’ambito della storia della religione ed è stato un fatto di grande importanza per l’Europa. Ma nel primo Rinascimento comincia una storia completamente nuova. Gli individui cominciano a commissionare ritratti di se stessi. Il ritratto nella modernità è strettamente correlato al sorgere dell’individualismo nella società. Negli autoritratti in figura di Cristo il sacro è relativo. Il ragionamento è abbastanza semplice: come Dio ha creato il mondo, così l’artista crea la sua opera. Ogni artista rappresenta sempre se stesso, indifferentemente da ciò che raffigura».

Nell’introduzione di Antropologia delle immagini sottolinea come "siamo condannati a vivere nel labirinto dei nostri specifici linguaggi che, così spesso, restringono oppure tagliano fuori parti dello spettro semantico". L’immagine invece è universale?

«C’è un legame stretto tra il modo in cui pensiamo e la lingua in cui ci esprimiamo. La traduzione è sempre pericolosa perché non può trasportare integralmente l’idea. Le immagini sono le stesse, ma le loro interpretazioni no. La globalizzazione però sta cambiando molte cose. Nel 1912 si tenne a Roma un congresso di storia dell’arte dal tema "L’Italia e l’arte straniera", termine che definiva l’arte fiamminga come l’arte europea in generale. Oggi non esiste più "arte straniera" in Europa, l’arte straniera è da qualche parte altrove».

Lei ha esplorato il legame originario tra arte e morte. È un legame attivo in qualche modo ancora nell’arte di oggi?

«Direi di no. La mia era un’osservazione di tipo antropologico. Gli esseri umani dovettero avere una ragione per iniziare a produrre immagini, e questa fu la morte di un membro della società. Questo legame resiste nelle immagini poste sopra le tombe dei defunti nei cimiteri. Oppure come in Argentina, con le madri di Plaza de Mayo che portano in marcia le fotografie dei desaparecidos. In questi casi il legame tra immagine, morte e scomparsa ha ancora valore».

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