martedì 7 maggio 2024
Dalla legge 194/1978 alla 405/1975, a due articoli della Costituzione, il 31 e il 118: i fondamenti giuridici per l'inserimento nella nuova legge sul Pnrr il volontariato a sostegno della maternità
Mamme e bambini in un consultorio pubblico

Mamme e bambini in un consultorio pubblico - .

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A qualche giorno di distanza dall’approvazione finale della nuova legge sul Pnrr, la n. 56/2024, si può tornare, con maggior distacco, su quella breve disposizione (meno di quaranta parole) introdotta dall’articolo 44 quinquies della stessa normativa, ritenuta così “eversiva”, da aver fatto gridare a molte testate giornalistiche italiane allo scandalo per giorni e giorni.
Si tratta di un passaggio dedicato ai “consultori” che, secondo la Missione 6 del Pnrr varata dal Governo Conte, saranno parte integrante delle “case di comunità”, cioè la nuova articolazione territoriale della sanità italiana. Secondo tale norma «le regioni organizzano i servizi consultoriali nell'ambito della Missione 6, Componente 1, del Pnrr e possono avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, anche del coinvolgimento di soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità».

Per comprendere il tasso di “novità” di una simile previsione serve riprendere, scolasticamente, la disciplina precedente e preesistente proprio sui consultori, sotto il particolare profilo della collaborazione con associazioni e realtà del terzo settore.
Innanzitutto, la legge 405/75, che ha istituito, tramite tali istituti, «il servizio di assistenza alla famiglia e alla maternità», all’articolo 1, commi 1 e 2, prevede che gli stessi «consultori possono essere istituiti anche da istituzioni o da enti pubblici e privati che abbiano finalità sociali, sanitarie e assistenziali senza scopo di lucro quali presidi di gestione diretta o convenzionata delle unità sanitarie locali, quando queste saranno istituite».

Anche la di poco successiva legge 194/78, dedicata principalmente alla «tutela della maternità», ha ribadito che i «consultori (...) assistono la donna in stato di gravidanza», precisando, all’articolo 2, comma 2, che «sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».

Andiamo ora un gradino più su nelle gerarchie delle fonti del nostro ordinamento. L’articolo 31, comma 2, della Costituzione è inequivocabile nell’affermare che la Repubblica «protegge la maternità (...) favorendo gli istituti necessari a tale scopo», mentre l’ultimo comma dell’articolo 118 sancisce il metodo di azione della Repubblica stessa, giacché «Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».

È, dunque, di un’evidenza assoluta che la nuova disposizione non ha introdotto nessun elemento di novità rispetto al quadro normativo preesistente: i consultori sono un istituto che attua quella protezione della maternità voluta dalla stessa Carta costituzionale, anche attraverso la collaborazione del terzo settore, secondo il generale principio di sussidiarietà. Certo: a fronte di una impostazione marcatamente centralistica del Pnrr, il legislatore del 2024 ben ha fatto a voler confermare, nella rifondazione e ristrutturazione dei consultori voluta dalla Missione 6 dello stesso Pnrr, l’opportunità della collaborazione con il terzo settore, semmai restringendo detta ipotesi con il discutibile divieto, in tal caso, di «maggiori oneri».

Le ragioni di tanta protesta, pertanto, semplicemente naufragano di fronte a evidenze così marchiane. O meglio, ne svelano le reali motivazioni. L’assunto, infatti, del clamore dei giorni passati sembra essere quello secondo cui qualunque risposta a una richiesta di aiuto da parte di una donna in attesa di un bimbo sarebbe pregiudizievole per la gestante, il cui unico “bene” sembrerebbe essere l’esito abortivo del nascituro. È opportuno, allora, che le posizioni che si sono scagliate contro l’ovvietà esposta dall’articolo 44 quinquies della legge 56/2024 siano giudicate per quello che sono: esito, cioè, di un enorme pregiudizio ideologico contro la maternità, che, paradossalmente, calpesta il tanto osannato diritto di autodeterminazione di una donna che volontariamente chieda aiuto mentre al tempo stesso si oppone al chiarissimo precetto del secondo comma dell’articolo 31 della Carta fondamentale, il quale indirizza, invece, le istituzioni verso il prioritario dovere di protezione della maternità stessa.

* Coordinatore network associativo “Ditelo sui tetti”
Membro del Comitato nazionale per la Bioetica

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