A dieci anni dalla pubblicazione del suo più grande successo, “Il bambino con il pigiama a righe”,
John Boyne torna a osservare i più piccoli al tempo della guerra, a raccontarli attraverso il loro sguardo e gli effetti devastanti che l’esperienza drammatica ha su di loro. Conseguenze rovinose come la perdita di affetti e di luoghi familiari, il disorientamento, la solitudine, l’incapacità di capire, la fragilità. Quella del sedicenne Pieter che lascia le montagne dell’Austria nella primavera del ’45
mentre la Germania sconfitta sta per firmare la resa, è una giovinezza disorientata, piegata e ferita nel profondo. Se ne va da solo da quella montagna dove dieci anni prima è arrivato con i calzoni corti. Allora però si chiamava Pierrot e veniva da Parigi dove era nato. Ha sette anni quando, orfano di entrambi i genitori, una
zia che non ha mai conosciuto lo prende con sé in una casa misteriosa tra le cime tranquille delle Alpi bavaresi. Non una villa qualunque ma il Berghof, la residenza estiva di Adolf Hitler e suo quartier generale. Qui Pierrot, diventato Pieter, incontra il Fuhrer e molti dei pezzi grossi del governo ma è un bambino e nessun adulto risponde alle sue domande. Il padrone di casa comunque, l’uomo serio con i baffetti che incute a tutti paura e obbedienza, che parla con enfasi della Germania, del suo futuro e del suo passato esattamente come faceva il padre di Pieter, aveva origini tedesche, comincia a suscitare nel ragazzo una strana attrazione. Tanto più quando il Fuhrer lo prende in simpatia e lo inizia all’ideologia del partito nazionalsocialista, all’obbedienza cieca a sé, salvatore della nazione… Il bambino in cima alla montagna (Rizzoli; 15 euro) è la vicenda umana di un bambino tenero e sensibile corrotto dal potere, privato della propria identità, plagiato dall’ideologia e ridotto a una creatura indifferente al Bene e al Male. Una storia che dimostra quanto sia facile farsi influenzare fino ad
annientarsi per bisogno di amore e di riconoscimento. Una china in cui è davvero facile scivolare quando sulla coscienza prevale il bisogno di uniformarsi e di essere accettato. Da non perdere. Dai 13 anni
Sembra una storia da romanzo quella di Ahmed
Dramé o forse, come azzarda lui stesso, una specie di miracolo che lo ha colto quasi impreparato. Ahmed e con lui i suoi compagni di classe sono stati i protagonisti di una vicenda straordinaria che fa carta straccia dei più resistenti pregiudizi e luoghi comuni contemporanei. Per esempio che un ragazzo venuto su nelle banlieue parigine, di famiglia islamica, per giunta nero abbia un destino segnato, non possa che restare prigioniero della propria marginalità, tentato dall’illegalità come reazione all’idea di avere una vita senza opportunità. E invece no. Per un ragazzo delle banlieue non c’è nulla di facile ma neppure nulla di impossibile; lo dimostra questa storia vera datata 2009, raccontata dallo stesso protagonista in un libro, Una volta nella vita, che ha commosso la Francia, ora pubblicato in Italia da Vallardi
(13,90 euro). Tutto succede
al liceo Léon-Blum, dove dire che la Seconda 1, un crogiolo di etnie, fedi e caratteri diversi, è un disastro pare un eufemismo. Irrequieti, esagitati, annoiati, disinteressati e disturbatori di professione, quei ragazzi odiosi sono un fronte troppo difficile per molti insegnanti. Non per la professoressa Anglès che su quei ragazzi non ha affatto perso le speranze. Né l’ottimismo. E un giorno comunica loro di averli iscritti al Concorso nazionale della Resistenza e della Deportazione sul tema dei bambini nei lager. Dopo l’iniziale sconcerto e l’incomprensione per una simile proposta, i ragazzi accettano il lavoro comune, sicuri di non avere alcuna possibilità di vincere. E così iniziano quel viaggio nell’oscurità di un passato orribile e terrificante che, grazie anche all’incontro con
un sopravvissuto di Auschwitz, cambierà la loro vita. Ahmed
Dramé, che nel frattempo ha studiato recitazione, è co-sceneggiatore e protagonista dell’omonimo film di Marie-Castille Mention-Schaar, in uscita in Italia mercoledì 27, Giornata della Memoria. Dai 15 anni.
Mancano poche ore al mattino del 4 agosto 1944. È un venerdì. Di lì a poco poliziotti della Gestapo avrebbero fatto irruzione nell’Alloggio segreto ricavato in un’ala disabitata di un edificio a Prinsengracht 263 di Amsterdam. È il retro della ditta di Otto Frank. Lì si nascondono otto persone che saranno arrestate. Qualcuno li ha traditi, avvertendo
la polizia tedesca che in quello stabile si nascondono degli ebrei.
Sono Otto Frank, sua moglie Edith e le sue due figlie, Margot e Anne, i coniugi Van Pels, Hermann e Auguste, e il loro figlio Peter, il dentista Fritz Pfeffe. L’intera vicenda della loro clandestinità, dall’estate del ’42 a quella del ’44 è diventata patrimonio comune dell’umanità grazie al Diario che la giovane Anne Frank ha ricevuto poco tempo prima, il giorno del suo compleanno e continua a scrivere anche durante gli anni del nascondiglio. I protagonisti de La porta di Anne pubblicato nella collana di Contemporanea di Mondadori sono gli stessi inquilini di quell’Alloggio ma quel che cambia è il punto di vista.
Mescolando Storia e finzione, Guia Risari ci offre il racconto inedito, di quello spazio di tempo che separa ciascun protagonista dal momento dell’arresto. Ignari di quel che sta per succedere anche se, come scrive Anna, tutti sentono farsi sempre più stretto il cerchio che li separa dal pericolo incombente, gli abitanti della casa ci appaiono in uno squarcio di
privata quotidianità - chi nel dormiveglia, chi ancora assorto nei propri sogni, chi desideroso di tornare a vedere la luce del sole e di respirare ara fresca, chi cercando di riconciliarsi con quella vita da carcerati -
pronti a ripiombare nella dura realtà. Quella molto più tragica che è già segnata. Oltre agli otto inquilini Guia Risari ha voluto osservare da vicino i pensieri di un nono uomo, il sottufficiale delle SS Karl Josef Silberbauer che pregusta il momento in cui aprendo la porta nascosta da una libreria potrà arrestare gli otto ebrei. Le lievi illustrazioni di Arianna Floris, alleggeriscono il cuore di chi legge e conosce la fine della storia. Dai 13 anni.
Chi è la ragazza con la bicicletta rossa sgangherata che nell’inverno del ’43, con un piccolo carico di pacchetti sfreccia ogni giorno tra le strade e i canali di Amsterdam? Cosa fa e soprattutto a chi consegnerà la sua merce nascosta, rischiando di finire nelle maglie dei controlli dei soldati tedeschi che occupano la città? Hanneke Bakker è “una che trova le cose” su commissione. Patate, salsicce e lardo, zucchero e cioccolato ma anche sigarette, rossetti e profumi: tutto quello a cui la gente deve rinunciare in tempi difficili. Se non sa dove cercare. Per essere chiari, un commercio al mercato nero per conto del signor Kreuk, l’impresario di pompe funebri di cui è la segretaria. Lucidamente Hanneke fa le sue consegne – che sono il suo secondo lavoro -
solo per soldi senza entrare troppo in relazione con i clienti. Finché un giorno una di loro, la signora Janssen le chiede aiuto per ritrovare Mirjam, la ragazza ebrea che ha ospitato, o meglio nascosto in uno stanzino segreto, e che ora è scomparsa. Ritrovarla prima dei nazisti. Hanneke, abituata a fare le cose per convenienza e non per bontà, è combattuta, vorrebbe sottrarsi alla richiesta ma poi sente che non può evitare di essere coinvolta nella storia di Miryam. La cui ricerca è piena di colpi di scena, di ribaltamenti, di situazioni intricate in cui nulla è mai quello che sembra. La ragazza con la bicicletta rossa (Piemme; 17,50 euro) è un romanzo avvincente e struggente insieme - opera prima della giovane americana Monica Hesse – che parla di amicizia e di coraggio, di dolore e di identità. E racconta, nel quadro di un mondo che sembra aver perso ogni briciolo di umanità, come imprevedibilmente ciascuno possa fare coraggiosamente la propria parte. E persino del proprio meglio. Dai 15 anni.
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