«Quando, in nome di Dio, affronteremo la lobby delle armi? », ha reagito Joe Biden alla strage nella scuola elementare di Uvalde, in Texas, costata la vita a 19 alunni e due insegnanti, oltre allo sparatore e al padre di uno dei bambini, morto di crepacuore nei giorni successivi. A guardare i numeri, verrebbe spontaneo rispondere «sempre troppo tardi». Secondo l’Education Week, dal 2018 nelle scuole americane si è sparato 119 volte, delle quali già 27 quest’anno.
Allargando lo sguardo all’intero Paese, le cifre sono ancor più sconfortanti: secondo il Gun Violence Archive, nel 2022 si sono già registrati 212 eventi con 4 o più persone – sparatore escluso – colpite o uccise. L’organizzazione ne aveva contati 693 nel 2021, 611 nel 2020 e 417 nel 2019. Purtroppo è facile prevedere che, come già Barack Obama dopo la strage di Newtown (26 vittime nel 2012), il presidente Biden non riuscirà a trasformare in legge il suo sdegno – tanto giustificato quanto condiviso. Molti sondaggi confermano che la maggioranza degli americani, compresa la maggioranza dei soci della potente lobby delle armi National Rifle Association (Nra), è favorevole a limiti di buon senso. Ma allora perché è impossibile introdurli? I motivi sono in parte culturali (i miti della frontiera e del West, con annesse esigenze di caccia e difesa), ma soprattutto legali e politici.
La legge è il II emendamento, 27 parole inserite nella Carta dei Diritti che nel 1789 integrò la Costituzione di due anni prima: «Una Milizia ben regolata, essendo necessaria per la sicurezza di uno Stato libero, il diritto del popolo di avere e portare armi, non sarà violato». I sostenitori del possesso indiscriminato si appoggiano a questo divieto presunto assoluto, in ciò trovando conforto anche nella sentenza Heller (2008) con cui la Corte Suprema, con la risicata maggioranza 5-4, abbandonò la lettura di «popolo» come collettività per quella di «cittadino individuale».
In realtà, il II emendamento non è mai stato un diritto assoluto: come ha ricordato Biden, «non ci si poteva comprare un cannone». Soprattutto, il testo legava le armi alla necessità di difendere lo Stato, esigenza legittima all’indomani di una fragile indipendenza ma incomprensibile quando il bilancio Usa stanzia per la sicurezza nazionale 777,7 miliardi di dollari, cioè più dei 10 paesi che spendono di più per la difesa. Ma la sola forzatura costituzionale non basterebbe, senza la politica. In passato furono regolamentate alcune tipologie di armi, quali i fucili di assalto protagonisti delle strage di Uvalde e di troppe altre stragi, così come si potrebbero introdurre controlli più accurati sugli acquirenti. Ma anche una legge ordinaria richiede l’approvazione di entrambe le camere. Qui che casca l’asino.
Mentre alla Camera i seggi rispecchiano la popolazione, al Senato ogni Stato, per quanto piccolo, dispone comunque di due senatori. Questo porta i 576.000 abitanti del Wyoming ad avere la stessa rappresentanza dei 33 milioni della California. Cosa ancor più importante, alle primarie la scelta dei candidati è affidata agli elettori più militanti e ideologizzati: pochi rispetto al totale, che si mobilitano più per i temi identitari che per le soluzioni e si lasciano guidare dai ratings che la Nra assegna in base alle posizioni sulle armi. In breve: per un repubblicano regolamentare le armi è un suicidio.
Non a caso, 33 senatori repubblicani su 50 hanno preferito non rispondere al New York Times che chiedeva se fossero pronti a fare qualcosa. Poiché gli Usa sono un sistema federale, si potrebbero immaginare interventi legislativi nei singoli Stati, ma la realtà a livello locale è ancor più difficile. Fino a pochi giorni fa il governatore del Texas, per esempio, Greg Abbott si vantava di aver reso ancora più facile acquistare armi. Né la situazione politica sembra destinata a cambiare molto presto. Chi studia storia e politica Usa dovrà continuare a tenere l’orrenda contabilità dei morti per sparatorie in scuole, luoghi di culto, concerti, supermercati ed a scrivere ogni volta gli stessi editoriali sconsolati.
Docente di storia e politica Usa, Luiss Guido Carli