C'è un bambino, riconosciuto come proprio figlio da una donna che dice di essere sua madre. C’è un tribunale che invece dice che quel bambino non è figlio della donna che lo ha riconosciuto. Questa donna è sposata a un uomo, padre biologico del bambino, che è nato da utero in affitto, in India. Cioè ha una madre genetica, che ha "donato" l’ovocita, e un’altra surrogata, che ha portato avanti la gravidanza e che lo ha partorito. Ma la donna che vuole essere riconosciuta come madre del piccolo è una terza persona, diversa dalle due madri biologiche (la "donatrice" e la surrogata, che in questa vicenda restano anonime, sullo sfondo): è «la persona che ha formulato il progetto famigliare e che, dalla nascita del bambino, ne è madre», come viene indicato da alcuni giudici, con una definizione a dir poco inquietante di maternità.
L’atto di nascita con cui il bambino è riconosciuto figlio dei due committenti – i coniugi che hanno firmato il contratto di maternità surrogata – è stato trascritto in Italia, ma poi il Tribunale ordinario di Milano ha fatto un passo indietro, cioè ha stabilito che la donna che ha firmato il contratto di surroga e ha cresciuto il bambino non è la madre, perché non lo ha partorito. La donna ha quindi fatto ricorso alla Corte di Appello, sostenendo che il legame biologico non può essere l’ultima parola su chi siano i genitori di un bambino, ed è questa Corte a porre il quesito alla Consulta, che ieri ha risposto. Per decidere bisogna stabilire quale sia il massimo interesse del piccolo, e la riflessione intorno a cui si sviluppa la sentenza della Corte Costituzionale è: quanto è importante la verità biologica, cioè l’esistenza o meno del legame biologico fra una donna e un bambino, per stabilire se sono madre e figlio davanti alla legge?
Al di là delle complesse e articolate considerazioni giuridiche, colpisce il modo in cui emerge la questione, e cioè come una contrapposizione fra favor veritatis, cioè l’interesse alla verità, e favor minoris, cioè l’interesse del bambino. Ma può esserci un interesse del bambino che escluda la verità su come è venuto al mondo? Come ha giustamente sottolineato l’Avvocatura dello Stato, le due cose non possono confliggere, al contrario: la verità su come una persona è stata concepita e su come è nata è una componente fondamentale della sua identità, anche se non è l’unica.
La sola esistenza di una discussione come questa dovrebbe far suonare una imponente sirena di allarme: possiamo non essere più in grado di stabilire chi è la madre di un bambino!
Dobbiamo chiederlo a più di un tribunale, e non c’è un Salomone in grado di rispondere, perché la domanda è andata oltre, e ci stiamo domandando quale sia il bene di un bambino, e poi se e quanto vale la verità, e, in ultima analisi, se esiste una verità su chi sia la madre di un bambino. E la Consulta, che pure ha dato una risposta improntata a buon senso e buon diritto, non può che aprire – simbolicamente – le braccia e dire: in questo caso non esiste una risposta certa e automatica, che valga sempre. Ogni volta dovete considerare e soppesare tutto. Come quel piccolo è stato concepito, e poi partorito, e poi come è vissuto fino ad adesso, e poi anche valutare se si può regolare il tutto con una adozione. E ricordatevi – ammonisce sempre la Consulta – che la maternità surrogata per la legge italiana ha «un elevato grado di disvalore», è vietata perché «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane», e anche di questo va tenuto conto. E quindi altri giudici dovranno ancora pronunciarsi, per scoprire quale sia il bene per quel bambino, e quindi dire chi è la sua mamma.
Eppure nella domanda posta alla Corte Costituzionale, a voler leggere bene, la risposta già c’è: se riconoscere la verità di quel concepimento e di quel parto potrebbe contrapporsi al bene di quel bambino, significa che nascere in quel modo, come "progetto famigliare" regolato da un contratto di maternità surrogata, non è un bene. Oramai abbiamo difficoltà a riconoscere una verità elementare, e cioè che ogni bambino ha diritto a vivere non con una madre, individuata a seconda delle circostanze da un qualche tribunale, ma con sua madre. Unica (semper certa, si diceva un tempo). E la verità è che la sua unica madre è quella che suo figlio lo ha concepito, lo ha portato in pancia e lo ha partorito, e se ce ne è un’altra può essere solo adottiva, quando la prima non c’è più o non è più in grado di crescerlo. Tutto il resto è delirio di onnipotenza in cui troppi sono caduti, un mondo in cui si può persino stentare a riconoscere il volto della mamma.
E meno male che, almeno in Italia, i custodi della Costituzione stanno ribadendo che la pratica dell’utero in affitto, saggiamente e limpidamente vietata nel nostro ordinamento grazie alla legge 40, «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». Ripetiamolo, sottolineiamolo, siamo tutti e tutte conseguenti. Ecco una certezza da cui, umanamente, ricostruire il vero e pieno rispetto della maternità, della paternità e della condizione di figlio.