Israele sia all'altezza della sua storia: le ragioni per fermarsi
venerdì 9 febbraio 2024

Un suggerimento di moderazione al governo di Israele lo scorso 7 ottobre, dopo il brutale pogrom dei fondamentalisti palestinesi, era così implausibile che persino la propaganda pro-Hamas preferiva negare le efferate violenze sui civili, sapendo che di fronte a quel massacro nessuno avrebbe apertamente biasimato la rappresaglia di Tel Aviv.

Dopo oltre quattro mesi di bombardamenti e di sistematiche devastazioni della Striscia di Gaza, il consenso all’invasione che ha provocato la morte di 28mila abitanti (tra cui i miliziani, almeno nei dati ufficiali, sono meno di donne e bambini) sta raggiungendo il punto più basso.

Benjamin Netanyahu ha maltrattato il segretario di Stato americano Anthony Blinken, volato di nuovo nella regione nel tentativo di avvicinare le parti in vista di una tregua. E ha detto di volere una “vittoria completa” secondo la sua determinazione iniziale di distruggere l’ala militare del movimento responsabile dell’attacco che ha scatenato il conflitto in Medio Oriente.

Ma sempre più appare chiaro che il premier con il suo gabinetto di guerra non solo stiano conducendo un’offensiva spesso in violazione delle norme del diritto umanitario internazionale, ma anche alienando al proprio Paese il sostegno dalla comunità internazionale.

Nel momento in cui la capacità militare di Hamas sembra ampiamente ridotta, se non quasi azzerata, risulta perlomeno miope proseguire l’avanzata su Rafah, la zona meridionale della Striscia, ultimo rifugio per quasi due milioni di sfollati in condizioni estreme, invece di accettare una tregua per consentire la liberazione del centinaio di ostaggi israeliani ancora nelle mani dei rapitori. Anche per un calcolo elettorale, considerata la protesta della parte più rumorosa del Partito democratico contro le uccisioni su larga scala di civili a Gaza, l’Amministrazione Biden ha aumentato la sua pressione su Tel Aviv, ma senza apparente esito. Nel frattempo, com’è noto, la crisi si è estesa con gli attacchi alle navi commerciali nel Mar Rosso da parte degli Houti yemeniti e alle truppe statunitensi nella zona da parte della galassia dei gruppi filoiraniani, con la conseguente risposta armata Usa. Su un altro versante, come si è visto persino in Italia con meschine accuse e polemiche, è riaffiorato l’antisemitismo latente che si alimenta di una falsa retorica dello Stato ebraico determinato addirittura al “genocidio” del popolo palestinese (imputazione che la Corte internazionale di giustizia Onu non ha per ora rigettato).

Per raccomandare moderazione a Israele, ovvero un cessate il fuoco con precise clausole, ci sono oggi, quindi, più che buone ragioni. Le prime, evidenti, sono nel terribile bilancio delle vittime, pari all’1,2% dei residenti nella Striscia, equivalenti a circa 720mila persone se parametrate sulla popolazione italiana, con decine di migliaia di feriti e il continuo peggioramento della situazione umanitaria di tutti coloro, la stragrande maggioranza, che hanno dovuto abbandonare le proprie case e sono accampati in tende con poco cibo e scarsa assistenza sanitaria.

Molti ospedali sono inagibili, numerosi edifici pubblici, a partire dal Parlamento, abbattuti o danneggiati, comprese centinaia di scuole e moschee. Si parla di “domicidio” per esprimere la più o meno sistematica distruzione degli edifici di un’area specifica, ed è quello che è avvenuto in quartieri di Gaza City e di altre località della Striscia, tra missili, colpi di cannone, cariche di esplosivo e incendi (alcuni palazzi erano certamente basi e arsenali dei terroristi, difficile pensare lo fossero tutti).

Ma esistono anche buone ragioni politiche e strategiche per una sospensione lunga delle ostilità e l’avvio di un processo di pace che non metta a rischio la sicurezza dello Stato ebraico. Si tratta di riprendere il cammino di distensione in Medio Oriente, quello che Hamas voleva sabotare, in modo da rinsaldare gli accordi di Abramo e isolare, con l’intesa tra Israele e Paesi sunniti sotto l’egida dell’America, l’Iran e chi soffia sul fuoco dell’odio (inclusi i doppiogiochisti che finanziano il riarmo dei fondamentalisti e poi fanno i pompieri). Significa anche raffreddare l’ostilità che in questo momento cresce in tanti ambienti verso ciò che è legato a Israele (non che i critici abbiano sempre ragione né, ovviamente, che si debba cedere al ricatto dei violenti).

Non è chiaro se Netanyahu abbia un piano di più lungo periodo che non sia soltanto la difesa del suo incarico. Da una parte, dipende dai partiti ortodossi di destra che vorrebbero occupare stabilmente Gaza costi quel che costi; dall’altra è alle prese con un Paese sì diviso ma anche consapevole che il potenziale allentamento dell’appoggio Usa potrebbe “costringere” ad assumere stabilmente la linea dura per assicurarsi da solo sicurezza e spazio vitale.

Una situazione complessa, avvitata in un circolo vizioso, cui servirebbe qualche nuovo elemento per condurre a una soluzione almeno provvisoria. Forse è utopia, ma l’Unione europea, che non è ancora riuscita a incidere, potrebbe mettere sul tavolo una propria mediazione convergente, proponendo di dispiegare proprie forze armate a Gaza per sostituire quelle israeliane e garantire sia che riprendano a pieno regime i servizi per la popolazione sia che Hamas non cerchi di riaccumulare razzi e riproporre minacce esterne. Gli ostaggi dovrebbero essere subito liberati, e in nessun modo andrebbe minimizzato o dimenticato l’eccidio iniziale di 1.300 ebrei inermi. Con Netanyahu o senza Netanyahu, Israele deve essere all’altezza della sua storia e continuare a incarnare quei valori comuni delle religioni abramitiche che ci affratellano e che non possono essere sacrificati sugli altari della vendetta e dei calcoli di potere.

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