Caro direttore,
dunque il cosiddetto "divorzio breve" è legge. Con il consenso di una larghissima maggioranza parlamentare. Anche io l’ho votato. Chi si occupa della questione – psicologi, sociologi, operatori del diritto – e anche più banalmente le statistiche ci informano che i casi per i quali il fattore tempo può influire ai fini di un eventuale ripensamento sono pressoché inesistenti. Ciò detto, devo confessare una preoccupazione. Altro è il dovere del legislatore di approntare un istituto che prenda atto (e disciplini) un fallimento, altro è – come ho sentito da parte di taluno sostenere in Parlamento – celebrare con compiacimento un traguardo di civiltà, sostenendo o quantomeno ammiccando a due tesi dalle quali dissento:
1) che la stabilità delle relazioni coniugali e familiari non rappresentino un valore per la società;
2) che l’istituto della famiglia non rivesta una sua peculiarità rispetto ad altre ma distinte forme di unione, ignorando il favor familiae sancito dalla Costituzione e dalla giurisprudenza. Una preoccupazione, la mia, acuita da altri segnali.
Tra gli altri:
1) il deposito, nelle stesse ore, da parte di due esponenti Pd e Fi di una proposta di legge sugli "accordi prematrimoniali" che, a monte, disciplinano i rapporti patrimoniali in caso di divorzio. Ennesimo segno e strumento di contrattualizzazione (de-pubblicizzazione) dell’istituto del matrimonio;
2) la priorità, in agenda, assegnata alle unioni tra persone dello stesso sesso, che apre all’adozione di figli nati da precedenti relazioni. Sono favorevole a una disciplina delle unioni civili, ma mi convince di più l’idea di una legge che regoli l’intera materia alla quale comunque dare precedenza.
Le mie preoccupazioni come, per converso, il mio assenso a una equilibrata disciplina delle unioni civili fanno leva entrambe sulla seguente motivazione: il legislatore non può non porsi il problema di disciplinare un fenomeno socialmente così diffuso; lo deve fare apprezzando e valorizzando ciò che concorre al legame e alla coesione sociale (tanto preziosa in una società frammentata) a cominciare dalla responsabilità tra i partner e dei partner verso la comunità; dunque conferendo valore alla stabilità delle relazioni e, di riflesso, non misconoscendo la peculiarità dell’istituto familiare.
Da ultimo tre osservazioni relative al contesto politico-culturale che sta a monte.
La prima: non sono così sicuro che una certa interpretazione individualistico-libertaria dei diritti civili sia "cosa di sinistra". E tuttavia, dalle mie parti, sento aria di uno scambio asimmetrico: a fronte di una certa compressione dei diritti sociali e del lavoro da parte del governo si pensa di placare la sinistra con misure come queste. Cui effettivamente è sensibile una certa sinistra minoritaria. Uno scambio che, a chi come me ha una formazione cristiano-sociale, procura semmai un doppio disagio.
Secondo. Devo essere sincero: mi preoccupa l’insensibilità a tali distinzioni nel mio partito, il Pd. La sua deriva non dico libertaria, più semplicemente agnostica. Si ha l’impressione che neppure si avverta il problema. Un deficit di scavo culturale, di profondità, di tematizzazione di questioni che decidono del profilo identitario (plurale?) del Pd. Una deriva – sia lecito notarlo – che, retrospettivamente, instilla qualche sospetto su quella stagione dell’Ulivo nella quale, alla rovescia, i cattolici (?) drammatizzavano a dismisura le differenze forse per marcare il territorio politico, per ritagliarsi una rendita di posizione. Come dimenticare i Teodem o anche i post-democristiani? Quelli dei "mai": mai le unioni civili, mai nei socialisti europei, mai il bipartitismo in nome della retorica identitaria di cultura e di partito. Tre "mai"... svaniti.
Infine, una parola sui cattolici in politica. Oggi essi sono meno pressati dal fronte ecclesiastico a farsi carico dei "princìpi non negoziabili". Non è una buona ragione per abbassare la soglia di un responsabile discernimento critico. Semmai il contrario: ora che non ci è sollecitato dall’esterno dobbiamo essere noi a farcene carico in proprio. Ricercando mediazioni politiche e legislative sagge. Ma non abdicando. Anche perché le aperture pastorali e la cura per la distanza dalla politica italiana di papa Francesco non vanno fraintesi come sconfessione dei princìpi etici. Come ha mostrato confutando l’ideologia del gender e ribadendo il valore della differenza sessuale.
Franco Monaco, deputato del Pd
Trovo stimolante la sua analisi, caro onorevole Monaco. Lei sa che condivido le preoccupazioni (e buona parte delle sottolineature) che propone. E certo immagina quanto apprezzi toni e argomentazioni liberamente consonanti con quelli che su "Avvenire" abbiamo sviluppato con particolare intensità negli ultimi dieci anni (e che purtroppo assai modesta eco hanno a lungo trovato nella sua area politica). I cattolici, dico e ripeto confortato dal magistero della Chiesa, non si opporranno mai a "più solidarietà", ma non si rassegneranno a "più confusione". Non mi dilungo su questo, vista l’efficacia delle sue annotazioni, ma la ringrazio. Aggiungendo, però, una paio di obiezioni. La prima è sul "fattore tempo": non è vero che sia così irrilevante (ne abbiamo scritto, raccogliendo autorevoli valutazioni "tecniche") nell’esercizio cristiano e laico (non fa differenza) della "pazienza" che preserva e rinnova le relazioni forti come quella matrimoniale. Anche per questo, fossi stato al suo posto, io avrei votato "no" al cosiddetto divorzio breve. La seconda obiezione è al considerare la parola dei Pastori «esterna» alla testimonianza cristiana: l’ascolto e la fedeltà non diminuiscono la libertà e la responsabilità. Ma grazie per il suo impegno che vedo e so non isolato. Mi auguro che sia incisivo e contagioso, che porti frutto per il bene comune. (Marco Tarquinio)