lunedì 23 gennaio 2017
Il 2017 avventuroso del biglietto verde: il presidente tifa per una svalutazione, ma i suoi piani protezionisti e la strategia della Fed ostacolano la svalutazione
Il particolare di una banconota da 100 dollari

Il particolare di una banconota da 100 dollari

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La vittoria di Donald Trump ha dato una bella spinta al dollaro. Nel primo mese dopo la sua elezione il dollar index, che misura l’andamento della moneta americana rispetto alle altre sei principali valute (l’euro, lo yen, la sterlina, il dollaro canadese, la corona svedese e il franco svizzero), è salito di oltre 4 punti percentuali. Questo però non è quello che vuole il nuovo presidente americano, che alla fine lo ha detto apertamente al Wall Street Journal lo scorso 13 gennaio: «Le nostre aziende — ha avvertito Trump — non possono competere [con quelle cinesi] perché la nostra moneta è troppo forte. E ci sta uccidendo». Il mercato lo ha preso alla lettera e nella prima settimana di scambi iniziata con il nuovo presidente in carica l’indice del dollaro è precipitato ai livelli più bassi da quasi due mesi, scendendo a 100,43 punti. Dall’inizio dell’anno la moneta americana si è rimangiata circa metà dei guadagni che aveva messo a segno dopo la vittoria di Trump.


Sono le premesse giuste per quello che sarà un 2017 avventuroso per il biglietto verde, strattonato in direzioni opposte. Il presidente vorrebbe un dollaro più debole (ma non troppo, ha lasciato capire in audizione al Senato il segretario al Tesoro designato Steven Mnuchin) ma le politiche protezioniste che ha promesso dovrebbero portare al risultato opposto: un incremento di investimenti sugli Stati Uniti, con conseguenze iniezione di capitali dall’estero, non può che aumentare le pressioni rialziste sulla moneta. Nello stesso tempo il programma di “exit strategy” dagli stimoli economici della Federal Reserve prevede ben tre rialzi dei tassi per quest’anno. Quella americana è l’unica grande banca centrale che sta riducendo gli stimoli mentre in Europa, Regno Unito e Giappone i governatori vanno avanti con i loro piani di Quantitative easing. Una divergenza che rafforza ulteriormente il dollaro.


Anche perché in Europa il QE potrebbe andare avanti anche più a lungo del previsto. A dicembre la Bce ha prorogato il piano di acquisti in scadenza a marzo fino a fine anno, riducendo però il ritmo di shopping mensile da 80 a 60 miliardi di euro. Secondo un’analisi diffusa dall’agenzia di rating Standard & Poor’s il programma potrebbe andare avanti anche nel 2018, dopo un’ulteriore riduzione. Qualcosa che farebbe molto piacere all’Italia («credo che il Quantitative easing sia indispensabile ancora per un anno e possa favorire la crescita» spiegava qualche giorno fa Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo) ma che farebbe infuriare la Germania, già molto nervosa per l’inaspettato aumento dell’inflazione a fine dicembre (l’indice dei prezzi è volato dal 0,7 all’1,7%). In un rapporto pubblicato il 23 gennaio dalla Bundesbank si fa presente che i piani della Bce hanno provocato una caduta del 6,5% del dell’euro rispetto al dollaro dal 2014 a fine 2016.

Il problema, notano gli analisti di Standard & Poor’s, è che le tendenze dell’inflazione hanno ritmi differenti all’interno dell’unione monetaria e lo stesso vale per le dinamiche del credito: nelle nazioni del nord c’è una ripresa di prezzi e credito, mentre al sud la risalita c’è, ma è lenta. Chiamato a destreggiarsi tra queste divergenze, Mario Draghi finirà probabilmente per scontentare più i tedeschi che gli italiani.



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