C’è un rischio che incombe sul diritto di famiglia. Quello di accelerare quella privatizzazione delle relazioni familiari già in parte sollecitata dall’incombente cultura del relativismo. Una tendenza adultocentrica di cui le prime vittime sono i minori. «Ecco perché se ne parlerà alla Conferenza nazionale della famiglia che si svolgerà a Roma i prossimi 28 e 29 settembre», osserva Gianni Ballarani, docente straordinario di Istituzioni di diritto privato presso la Pontificia Università Lateranense e membro del Comitato scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla Famiglia presso la presidenza del Consiglio dei ministri. Ballarani è anche referente scientifico del gruppo sulla giustizia minorile in vista della Conferenza.
Qual è stato il criterio che ha guidato gli esperti del vostro gruppo?
Al Gruppo sull’analisi giuridica, economica e sociale del fenomeno della disgregazione familiare ho proposto di lavorare sulla 'evoluzione della famiglia fra diritto e società', come espressione del rapporto dicotomico tra eteronomia ordinamentale e autonomia privata in ambito familiare, confrontando la spinta normativa e giurisprudenziale alla 'privatizzazione' del diritto di famiglia con le imprescindibili esigenze di tutela pubblica del superiore interesse del minore, dando primario rilievo al ruolo del Garante dell’infanzia e dell’adolescenza.
Cosa si può fare per cambiare la mentalità che considera marginale la mediazione familiare nelle situazioni di conflittualità coniugale?
Il problema principale, che affronteremo in Conferenza, risiede nell’aver relegato la mediazione a eventuale parentesi infraprocessuale, svilendone con ciò la funzione. Volgendo lo sguardo ai modelli di collaborative justice, la mediazione, come strumento di soluzione conciliativa delle problematiche inerenti alle relazioni familiari e interpersonali, assolve la propria funzione soprattutto in chiave preventiva e contenitiva della conflittualità. In questo senso, si può ipotizzare la predisposizione di un modello tendenzialmente extragiudiziale (pre-processuale o infra-processuale) di orientamento collaborativo per la gestione di questa, mediante l’ausilio di una rete di professionisti operanti in equipe.
Figli nati all’interno del matrimonio e figli nati da convivenze. La legge li ha messi sullo stesso piano, ma esistono ancora diversità quando la coppia si disgrega?
In realtà, le domanda coinvolgono un duplice profilo – che affronteremo in Conferenza – attinente, per un verso, ad un residuo di discriminazione fra figli, nonostante lo status unico (legge 219/2012) e, per altro verso, a un differente approccio alle sorti della prole nella crisi della convivenza coniugale e non. Sotto il primo profilo, va rilevato il fatto che un figlio nato in costanza di ma- trimonio è direttamente figlio della coppia, in ragione della certezza della maternità e della presunzione di paternità, laddove lo status del figlio nato al di fuori del matrimonio è rimesso al libero riconoscimento da parte di uno o di entrambi i genitori. Sotto il secondo profilo, anche nelle ipotesi di separazione consensuale o di divorzio congiunto in cui c’è l’accordo dei coniugi, questi non possono sottrarre le sorti della prole al vaglio giudiziale. Se la coppia non è coniugata, il ricorso alle procedure di affidamento è solamente eventuale, in quanto rimesso alla comune volontà delle parti o al ricorso di una di esse.
Ritiene corretto valorizzare i concetti di continuità affettiva e di genitorialità sociale nella prossima legge di riforma delle adozioni?
Se entrambi i concetti assumono oggi rilievo nelle procedure di gestione dell’abbandono transitorio o permanente del minore, questi debbono sempre misurarsi con il diritto del minore di crescere ed essere educato nella propria famiglia, (art. 1, legge 184/1983) che impone di considerare in veste esclusivamente rimediale e residuale l’affidamento familiare e l’adozione. Il rischio legato a una enfatizzazione del valore dei concetti in parola consiste nel ritenere l’abbandono del minore e il suo sradicamento dal proprio contesto di origine non come un trauma, dandosi scarso rilievo al fattore biologico della procreazione. Se tutto ciò viene confrontato con la visione adultocentrica al fondo di taluni assunti normativi e giurisprudenziali, si rischia di sacrificare il superiore interesse del minore sull’altare dell’utilitarismo individualistico che vuole il diritto e l’ordinamento in funzione servente.
La legge del 2006 sull’affido condiviso viene considerata da più parti ormai inadeguata. Si può andare oltre?
Così come ho sostenuto sin dal primo commento alla legge 54/2006, ritengo ancora che, sebbene un accordo fra le parti sia di più facile attuazione, questo non dovrebbe sottrarsi al vaglio omologatorio da parte del giudice, il quale dovrebbe valutarne la corrispondenza all’interesse superiore della famiglia nel suo insieme e della prole nello specifico. Ciò non toglie che, taluni assunti della legge sull’affidamento condiviso, come quelli sulla assegnazione della casa familiare, in quanto habitat presuntivamente ottimale per la prole, meriterebbero una rimeditazione accordando maggior autonomia alle parti, specie a considerare come sovente dalle ceneri di un rapporto ne sorgano altri, sicché il vantaggio accordato ad una parte può tradursi in fattore discriminatorio per nuove – e magari più stabili – realtà affettive.
È vero che le scelte legislative di questi ultimi anni (divorzio breve, unioni civili) hanno finito per privatizzare le relazioni mettendo il minore in una situazione di minore tutela legislativa?
Ne sono fermamente convinto. Stiamo assistendo alla progressiva e irreversibile rinuncia da parte dell’ordinamento a preservare quel-l’interesse pubblico che connotava l’insieme dei principi al fondo del diritto di famiglia e dei minori. Sembra che lo Stato dimentichi come la protezione costituzionale della unità familiare trovasse ragione propria nella insostenibilità dei costi sociali della disgregazione familiare. Come ho sostenuto in sede di primo commento alla legge sulle unioni civili, si stanno sempre più contrattualizzando le relazioni affettive nelle fasi genetiche, funzionali e patologiche, svilendo ogni profilo di rilevanza personale. Ciò può non creare problemi se, accanto al rispetto dell’autonomia privata familiare fra adulti, si mantiene una tutela pubblica dell’interesse superiore del minore.