martedì 23 aprile 2024
Per lo storico cappellano milanese, le criticità sono «le carenze nell'organico della polizia penitenziaria, i turni massacranti e la mancanza di figure educative»
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undefined - Cristian Gennari

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Più formazione agli agenti di polizia penitenziaria e più attività educative e di formazione professionale per i detenuti minori finiti in carcere soprattutto per reati di sopravvivenza. Questa è la ricetta per abbassare la tensione e dare un futuro diverso ai ragazzi di don Gino Rigoldi, cappellano emerito del “Beccaria” che prova a fornire alcune spiegazioni sul contesto in cui è maturata l'inchiesta sulle violenze che hanno portato all'arresto di 13 agenti di polizia penitenziaria.

«Dalle 16,30 fino alla sera alle 21 il “Beccaria” diventa un deserto, non ci sono più educatori, né animatori né attività come invece accadeva anni fa. E in questo deserto restano solo guardie e detenuti». A 85 anni e dopo mezzo secolo nel carcere minorile milanese, don Gino Rigoldi ricorda bene le diverse stagioni dell’istituto penale per minorenni ora nella tempesta per le accuse di violenze e torture ai detenuti che sarebbero da imputare ad alcune guardie.

«La premessa - afferma don Gino - è che le violenze sono reati e vanno punite. Ma se analizziamo il contesto in cui sono nate, vi ritroviamo indubbiamente carenze decennali. Ad esempio, dopo 20 anni lo scorso dicembre è arrivato un direttore titolare a tempo pieno, il comandante delle guardie è cambiato da alcuni mesi, è una donna comandante vera dopo decenni di comandanti precari». Altro buco nero è la formazione delle guardie carcerarie.

«Formazione per modo di dire - aggiunge - sono giovanissimi agenti cui viene spiegato poco o nulla in termini educativi. Per le carenze in organico, sono sottoposti a turni che possono arrivare anche a 12 ore e che con questi ragazzi diventano davvero massacranti. Questo non giustifica la violenza e i maltrattamenti, lo ribadisco, però, in questo contesto anche l’educazione dei detenuti è concepita in modo frontale, con le guardie da una parte e i ragazzi dall’altra e così si crea la contrapposizione». E le figure educative?

«Quelle attive in orario diurno sono troppo poche. A differenza di 20 anni fa, dalle 19 alle 21 non ci sono più club di lettura, di arte, di musica che consentivano ai ragazzi dopo cena di avere momenti di aggregazione culturale e artistica con un tempo libero organizzato, Oggi a partire dalle 16, 30 il “Beccaria” chiude, vi si trovano solo agenti con i ragazzi, e magari uno deve tenerne a bada 15 che non sono esattamente tipi semplici fino alla mattina dopo.».

Altro punto è che sono cambiati i detenuti. Dalla maggioranza di ragazzi italiani negli anni della tossicodipendenza di strada del secolo scorso, si è passati agli stranieri e oggi ai minori stranieri non accompagnati. In generale il filo rosso di questi ultimi tempi è che si registra l‘aumento di ragazzi in sofferenza psicologica e psichiatrica.

«Da parte di chi deve contenerli e non ha avuto la necessaria formazione - commenta don Rigoldi - si arriva così a violenze e ad atteggiamenti in chiave punitiva molto violenti come risposta a comportamenti aggressivi. Questo genera molta violenza. Una volta si utilizzavano di più psicofarmaci e tranquillanti, ora vi si ricorre molto meno, ma così questi ragazzi diventano pericolosi per sé e per gli altri. La rabbia dalle due parti è generata da una parte dalla frustrazione di una detenzione che diventa solo punitiva e dall’altra dalla mancanza di personale e da un compito che diventa sempre più difficile».

Resta anche per i detenuti del Beccaria, in larga maggioranza minori di strada che viaggiano soli per deserti e il Mediterraneo, la mancanza di alternative per costruirsi un futuro nella legalità.

«Non dimentichiamoci - conclude il prete dei ragazzi di strada - che questi minori sono finiti in galera per reati di sopravvivenza soprattutto. Sono in attesa di conoscere le alternative su cui costruire il futuro, perché con le comunità piene per loro spesso resta la strada. Siccome sono venuti in Italia per guadagnare e con una cultura diversa da quella italiana, servono più mediatori culturali e corsi di formazione professionale spendibili subito nella ristorazione o nella panificazione o in attività artigianali. Bisogna implementare le alternative alla pena per farli stare fuori a lavorare mattina e sera, perché certe energie siano spese bene dando un senso alla detenzione».

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