giovedì 25 aprile 2024
La giovane educatrice di origini marocchine è l'anima e il braccio del Circolo Banfo in Barriera Milano, dove ragazzi e bambini in difficoltà trovano uno spazio sicuro per crescere
Kenza parla con due bimbi della scuola d'infanzia di Torino

Kenza parla con due bimbi della scuola d'infanzia di Torino - .

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I pregiudizi fanno male sulla pelle. Un male fisico, profondo. «Eppure si possono superare, si resiste. Il punto è che non ci si riesce da soli. Niente si può fare da soli. E quando si capisce questo, allora si capisce anche che l’unico modo per uscire dalle discriminazioni e dai pregiudizi è guardare agli altri e cercare di capirli». Kenza Kissou ha 26 anni, è nata a Casablanca ed è arrivata a Torino quando di anni ne aveva 5. «I miei genitori – dice adesso – avevano fatto domanda per farmi andare alla scuola materna: sono stata respinta perché in classe gli stranieri erano troppi. Nel 2020 in quella stessa scuola io sono entrata come educatrice». Kenza racconta il suo impegno a Barriera di Milano, forse uno dei quartieri più difficili di Torino, e dice subito: «Qui si possono fare cose bellissime. Basta volerlo».

Le “cose bellissime” si concentrano al Circolo Antonio Banfo, un luogo che ha tanta storia da raccontare. Banfo era un operaio comunista che lavorava alla Fiat Grandi Motori negli anni Trenta, amava la cultura e i diritti ed era antifascista: fu trovato morto il mattino del 18 Aprile del 1945, pochi giorni prima della liberazione della città. Per questo il circolo porta il suo nome. Lì, prima di Kenza e di molti altri giovani, sono passati personaggi come Salvatore Quasimodo e Italo Calvino. Ma poco importa, perchéquello che conta oggi è che al Banfo si fa resistenza al degrado della vita. «Tutto sta nel superare i pregiudizi. Gli italiani pensano che chi arriva qui sia solo dedito al crimine – spiega Kenza –, mentre chi arriva qui pensa che gli italiani odino a prescindere. È davvero questione di culture che, spesso, non riescono ad incontrarsi». Il lavoro di Kenza Kissou si colloca proprio in quell’area di confine, la sottile linea dalla quale può scaturire il dialogo oppure lo scontro. E quel dialogo che iniziare dall’infanzia: «Lavoro come educatrice in una cooperativa per i bambini da 0 a 6 anni e per quelli da 6 a 12. Mi interesso anche di temi sociali, culturali, di musica e di arte. Al Banfo mi occupo del doposcuola: chi è arrivato qui nel 2016 come ragazzo che doveva fare i compiti, dopo si è accorto di essere cresciuto e di poter aiutare gli altri più giovani di lui a fare i loro compiti. E dopo i giovani sono arrivate le madri e poi i padri. Qui c’è un forte senso di comunità che si può creare solo in un quartiere con tante difficoltà».

Eppure, si diceva, gli stereotipi sono tanti. Talvolta troppi. Kenza racconta un episodio accaduto proprio al Banfo: «Un giorno arriva un ragazzo mandato qui dagli assistenti sociali. Lo accolgo io. Di lui mi viene detto solo il nome, il cognome, l’età e che ha rubato un coltellino all’Ikea. Quel ragazzo era solo questo: un ladro di coltellini con un nome. È una cosa triste. Non si può ridurre una persona ad uno sbaglio». Kenza prova a guardare oltre gli sbagli dei giovani: «Offriamo – spiega – quello che si chiama un safe space, uno spazio sicuro dove fare musica, arte, studiare, crescere». E attenzione, anche alle famiglie. «Mi ha colpito qualche tempo fa un altro episodio. C’era un ragazzo con una famiglia che non reagiva a nessuna comunicazione. Una famiglia fantasma. Poi abbiamo scoperto che padre e madre di questo ragazzo non potevano comunicare normalmente perché erano entrambi analfabeti».

Resistere significa capire: «Non è facile, occorre superare barriere invisibili ma grandissime. Non significa solo guardare il bello oppure il brutto, ma adattarsi al contesto di ogni singola persona che incontri. E resistenza sta anche nel contrapporsi alle dinamiche che ti spingono lungo una strada prestabilita. Ma cambiare strada significa anche essere capaci di riconoscere l’altro, senza per questo dimenticare le proprie radici culturali». E i pregiudizi pesano così tanto anche a 26 anni? «Certamente. Perché lasciano il segno. Ne ho sopportato moltissimi, ad iniziare dalla storpiatura del nome per arrivare alle domande sulle mie capacità. Ma sono qui».

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