Machiavelli ritratto da Santi di Tito
Un Machiavelli disatteso e dunque sorprendente s’affaccia dalle pagine dell’ultimo fascicolo della rivista 'Humanitas' (Morcelliana, settembre-dicembre 2017, studi in Omaggio a Giovanni Filoramo, storico del cristianesimo antico e dello gnosticismo). A dedicare Nove tesi sull’ultimo Machiavelli è Gaetano Lettieri che va a ristabilire l’integralità della dimensione politico-religiosa del segretario fiorentino, altrimenti monocorde; già rigidamente codificata nei suoi profili tradizionali, cinici e atei, allorché, nel suo ultimo biennio di vita (1525-27), Machiavelli giunse a Roma agendo agli ordini del papa mediceo Clemente VII. Lo studio di Lettieri prende avvio dalla rilettura dell’Esortazione alla penitenza (1525) di Machiavelli, considerata finora un’esercitazione retorica e occasionale, oppure sfuggente e anomala nel complesso della sua produzione, ma le cui fonti sia dirette che mediate, ora individuate da Lettieri, aprono a scenari inopinati. Intanto non più Firenze ma Roma è la sede presso cui, nell’anno santo 1525, venne recitata all’interno dell’Arciconfraternita della Misericordia di San Girolamo, che raccoglieva l’élite curiale e umanistica cittadina.
Il contenuto appare rigorosamente antiluterano, sia nella mirata esclusione di una specifica terminologia che potesse ricondurre agli slogan protestanti di una salvezza per sola fede senza le opere, sia nell’accentuazione della cooperazione al disegno di salvezza per fede e appunto - per opere. Emerge tra le fonti immediate dell’Esortazione il De immensa Dei misericordia di Erasmo, a tratti traslitterato (e sono anni in cui la rottura tra Erasmo e Lutero è definitiva), e altri testi mediati tra cui l’Interpretatio in psalmum Miserere del pio e riformatore vescovo di Carpentras Jacopo Sadoleto. Ora, proprio Sadoleto, oltre ad essere membro della stessa Arciconfraternita e segretario ai Brevi del papa Clemente VII, è il possessore di uno dei più importanti manoscritti del Principe. La posizione del Machiavelli a Roma, in quel biennio politicamente delicatissimo che si sarebbe concluso col Sacco della città, acquisisce progressivamente un profilo sempre più marcato e nient’affatto marginale nel grande disegno del pontificato clementino diretto a operare per la 'libertà d’Italia'. Machiavelli s’era condotto a Roma, dopo un decennale corteggiamento del gruppo di potere mediceo contro cui aveva pur militato a Firenze, per presentare al Papa le concluse Istorie fiorentine. A Roma aveva quindi ritrovato la 'rete' fiorentina di banchieri, intellettuali ed esponenti di rilievo della curia, all’interno della quale, venne a ricoprire quel ruolo politico cui aspirava. Ebbe l’incarico di organizzare e provvedere con 'armi proprie', cioè non mercenarie, alla difesa della Romagna pontificia, che voleva dire dello Stato ecclesiastico, in uno scenario di guerra europea che vedeva l’imperatore Carlo V (e con lui la Germania luterana) schierato contro la Lega di Cognac in cui il Papa e Venezia e Milano e, da lontano, la Francia, difendevano disperatamente equilibri geopolitici essenziali per la 'libertà d’Italia'.
E l’opera di Machiavelli si rivela d’improvviso a 360 gradi appena individuato fondatamente nei ricorrenti e anonimi 'messer' o 'signor' Niccolò che appaiono in istruzioni ed epistolari. «Il sig. Niccolò attende a tutto», ne dice ad esempio il Sadoleto. In effetti corre per la penisola organizzando difese, arruolando truppe, stringendo contatti tra confederati. Non trascurando la propaganda politica. Lettieri attribuisce a Machiavelli quattro pasquinate altrimenti anonime che, nel corso del 1526, lo vedono inneggiare alla vittoria romano-pontificia contro l’imperatore Carlo V e Lutero, utilizzando un topos tipico della tradizione umanistico- repubblicana (e già miche-langiolesca): Davide che abbatte il potere tirannico. Accanto a lui, in questo schieramento politico, stanno i grandi protagonisti di quella stagione di speranze: da Francesco Guicciardini al vescovo Matteo Giberti (vero e proprio protagonista della politica estera pontificia), ai cardinali Giovanni Gaddi, Antonio Ciocchi del Monte (già apprezzato, da Machiavelli, «comandante generale del duca Valentino») e altri, che portano a rileggere e a ridefinire alcune delle più importanti ed enigmatiche pagine del Principe. Scritto fnei pochi mesi del luglio-dicembre 1513 (edito postumo), lasciava aperta, nell’ultimo capitolo, l’individuazione dubbia del 'redentore d’Italia' in qualche membro della famiglia medicea. L’evoluzione della politica pontificia, antimperiale e francofila, portava ora proprio il mediceo papa Clemente VII a ricoprire quel ruolo vagheggiato da Machiavelli oltre un decennio prima, e che questi, dunque senza contraddizioni (e certo al netto della sua smania di far politica), poteva ora non solo celebrare ma coadiuvare su ogni piano, non escluso quello religioso in cui aveva saputo subito inserirsi e orientarsi.
Machiavelli poteva così saldare, in quest’ultimo biennio di vita, il suo nuovo ruolo di cortigiano pontificio con quello del cantore delle antiche virtù romane e del propagandista della nuova cultura politica cattolico-romana, umanistica e persino repubblicana. Glielo consentiva lo scenario internazionale: la tradizione repubblicana fiorentina era sì naturalmente antimedicea, ma pur sempre francofila. La drammatica sconfitta politico-militare della Lega di Cognac simboleggiata dal Sacco di Roma (cui Machiavelli sfuggì di misura) e da Clemente VII rinserrato a Castel Sant’Angelo, obbligava all’amaro risveglio dopo il sogno illusorio. Altrettanto emblematicamente si registrava allora, scovato da Lettieri, il primo agguato alla memoria del mentore appena riconosciuto di quel sogno: la tradizione antimachiavelliana; la dannazione del maestro di sotterfugi e inganni, gemmava da una Novella del Bandello, proprio a Verona, stessa terra di cui era stato vescovo Matteo Giberti, protagonista di quella stagione di speranze.