domenica 28 aprile 2024
Il teologo: «Siamo mentalmente prigionieri di un equivoco. La cultura è onesto amore per la realtà, prima che essere doverosa cura del sapere. La Chiesa non è la badante sociale delle tradizioni»
Giuliano Zanchi

Giuliano Zanchi

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Prosegue il dibattito che da diverse settimane anima le pagine di “Avvenire” attorno alle questioni tra cattolicesimo e cultura. In precedenza sono interventi Sequeri, Righetto, Gabriel, Forte, Petrosino, Ossola, Spadaro, Giaccardi, Lorizio, Massironi, Giovagnoli, Santerini e Cosentino.

Quelle che si versano per lamentare il distacco culturale, se non l’isolamento, della vita di chiesa dal resto del mondo, sono per molti versi lacrime di coccodrillo. Ci si trova a piangere sul latte versato già in secoli lontani, che hanno visto il cristianesimo ritirarsi nelle sue riserve sociali sempre più ristrette, con metodo e caparbietà. C’è anche da capire, naturalmente. Il “mondo moderno” è sorto nel quadro di una progressiva secessione dei saperi forti dalla religione, e in un contesto di antagonismo che in molti tratti del suo processo non ha avuto nulla di amichevole. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra, verrebbe da dire. Del resto, sarebbe servito maggior sangue freddo, e più applicazione intellettuale, e anche più libertà spirituale. Ma nell’ultima luce della nostra egemonia sociale ci sono scappate quasi solo mozioni d’ordine e barricate dottrinali, seminagione del diffuso rancore – sommario e senza attenuanti – che ora la civiltà dell’attuale Europa liberal democratica riserva al suo passato cristiano. Abbiamo anche imposto una sorveglianza interna al sapere religioso e cristiano che in qualche momento ha rasentato i tratti dello stato di polizia, con l’unico risultato di diserbare la chiesa delle migliori intelligenze in circolazione.
Due o tre secoli vissuti pericolosamente, che ci restano sotto la pelle come un imprinting, anche se c’è stato il Concilio, anche dopo la grande teologia del Novecento, e un certo rinnovamento pastorale. Una specie di inconscio premoderno continua a dominare i gli umori, a filtrare le visioni, a modellare i pensieri, a incitare quel mai rimosso impulso all’ipercontrollo e all’autocensura che sulla distanza ha depotenziato molte delle nostre parole, ridotte a fossili verbali utili solo alla stratigrafia di un mondo scomparso.
Bisogna pur dire che le congiunture non aiutano, immergendoci da capo a piedi nelle radiazioni di un generale riflusso dei pensieri e delle passioni, delle visioni e degli istinti sociali, che irradiano i loro effetti sullo sfondo delle spensierate eccitazioni della scienza e della tecnica, del cinismo dell’utile e della frenesia del dilettevole. È tutto il mondo che tira da una certa parte.
Ma noi non dovremmo avere gli antidoti a questi smorti sintomi di generale decostruzione? Sembra invece di no. Trovi i credenti più facilmente in coda ai cortei degli scontenti, nella mischia dei reazionari, e dietro al pifferaio magico del momento, piuttosto che tra i profeti e i sapienti di cui questo tempo avrebbe bisogno. Non siamo fuori dal mondo; ma frequentiamo di preferenza le sue zone d’ombra, gli ultimi centri storici della sua riduzione a memoria, le Ztl della nostalgia collettiva. Questo posizionamento incide nettamente sui momenti nei quali, anche con progetti di lodevole lucidità, abbiamo messo mano al “dossier cultura”, conferendo però a essi un’impronta sostanzialmente apologetica, come se in fondo il problema si riducesse a come incartare meglio, da bravi decoratori del già detto, contenuti prestabiliti. Si sono, così, rarefatti gli spazi degli intellettuali cattolici, e infoltiti quelli della “mondanità culturale”, quel non dire niente ma detto molto bene che buca gli schermi della comunicazione pubblica, nuovi pulpiti della presenzialità mediale, dell’editoria di cassetta, dove si dicono proprio quelle banalità lì, con quel preciso grado di insipidezza, di innocua convenzionalità.
Il punto è che siamo mentalmente prigionieri di un equivoco. Non si tratta di dire meglio cose vecchie, e “nostre”; ma comprendere in modo nuovo cose di sempre, e perciò anche «di tutti». E non si tratta si sapere più cose – non fa comunque male –, ma guardare in un altro modo il mondo. Serve mettersi in un contesto di alleanza tra culture e visioni, senza paura dello “straniero”, ma anche senza soggezione per quelli che si presentano come “saperi forti”. La cultura è onesto amore per la realtà, prima che essere doverosa cura del sapere, fedeltà alla terra piuttosto che astratto culto delle idee. È proprio il discorso cristiano che si deve riformulare, non semplicemente i suoi rivestimenti retorici e i suoi abbellimenti estetici, e questo non si fa stando fuori dalla cultura che ci provoca su quello che pensiamo di credere e su quello che crediamo di possedere. Non farlo, significa accettare il ruolo di badante sociale delle tradizioni che quest’epoca assegna alla Chiesa.
Esistono ambiti in cui si depone pazientemente - e per tempo – la seminagione perfetta per quegli amari raccolti che quando arrivano sembrano sempre frutti improvvisi. Uno sta, per esempio, nei criteri della selezione istituzionale – meglio obbedienti che intelligenti, meglio integrati che lungimiranti –, dove finisce per formarsi la stoffa di un intero quadro dirigente. Partirei anche solo da qui, per esempio, in modo da non restare impigliati nella rete dei “bisognerebbe” e degli “occorrerebbe” che, con la sua vertigine, sembra sempre un po' la letterina a Babbo Natale.
Ma un altro – e lo penso con convinzione – mi sembra quello della liturgia – insospettatamente, si dirà –, dove quotidianamente la Chiesa si rivela per quello che è, e si modella per quello che può, nella densità del segno e nella qualità della parola, e in cui comincia quel farsi cultura del cristianesimo che consiste anzitutto nell’essere profezia della storia e sapienza della vita. Non mi sembra un caso che la liturgia sia divenuta in questi ultimi decenni trincea di conflitti a cui resta sottesa una disputa sul posizionamento cristiano nel mondo. Basterebbe già, sempre per esempio, la goccia imperterrita di riti e omelie all’altezza del loro oggetto, per scalfire la pietra di una cultura cristiana in sintonia con le frequenze della realtà, e cambiare la musica di fondo. Mi sembra che poi si possa dire tutto – sui mezzi, sugli strumenti, sui dialoghi, sulle strategie –, ma è sempre un arrivare “dopo”, piuttosto che un presentarsi “per tempo”.

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