La maternità surrogata dal punto di vista filosofico, analizzata sulla base delle norme etiche accettate dalla società occidentale e orientale, senza il filtro di categorie religiose. È il compito che si è dato Rivka Weinberg, giovane docente di filosofia presso lo Scripps College di Claremont, in California, che ha dedicato buona parte della sua carriera a studiare le implicazioni della procreazione, naturale o assistita. Una ricerca sfociata nel suo ultimo libro sull’etica procreativa, «Il rischio di una vita», della Oxford University Press.Weinberg, che lavora al Dipartimento di Studi su femminismo, gender e sessualità, affronta prima la maternità surrogata "a pagamento", chiedendosi perché venga criticata. La conclusione è che trattare una persona come un oggetto di contratti commerciali contraddice una visione accettata da più di due secoli secondo la quale le persone vanno considerate esseri con fini e dignità a sé stanti, non piegabili agli scopi altrui. «Un’altra forte obiezione alla maternità surrogata commerciale – spiega la filosofa californiana – è che sfrutta le donne. La realtà osservata in molti Paesi poveri, come l’India, è che se le donne coinvolte avessero un’alternativa la sceglierebbero, perché avere un bambino conto terzi è un lavoro difficile e rischioso, che non viene pagato bene. Ma la vulnerabilità di queste donne deriva dal fatto che nella loro società non hanno molte opzioni per guadagnare». In pratica, fa notare la filosofa di origine ebrea, le società ricche stanno dando in
outsourcing la riproduzione, allo stesso modo in cui hanno trasferito all’estero i loro centri di servizi ai clienti. I difensori della maternità surrogata obiettano che nel caso di donne che donano il loro utero ad amici in modo altruistico – senza chiedere denaro in cambio – queste osservazioni non reggono perché si tratterebbe di una pratica equiparabile alla donazione di organi o all’adozione, discutibili solo quando portate a termine per interesse. La donazione di rene è il caso più noto. «La vendita di reni è vietata – evidenzia Weinberg – perché le possibilità di sfruttamento sono ovvie: in alcune aree dove il mercato nero è radicato i creditori considerano il rene come una garanzia: se il debitore non paga, la cessione di un rene elimina il problema». Ma la maternità surrogata "altruista" può essere considerata come una forma analoga di donazione? «In questo caso – spiega la filosofa – il prodotto finale è un bambino che merita rispetto e protezione. L’analogia non regge perché una persona ha bisogni molto più complessi e una dignità che un singolo organo non ha». Molti invece considerano la maternità surrogata alla stregua dell’adozione. È un paragone sensato? «L’adozione è una soluzione al problema di un bambino bisognoso che non ha adulti in grado di soddisfare le sue esigenze – risponde Weinberg –. Permettere ad altri adulti di crescerlo con amore e competenza è il meglio che possiamo fare in questa situazione. Ma la maternità surrogata è procreazione con l’intento di cederne il frutto. È come rimanere incinta deliberatamente per dare il bambino in adozione».Anche in questo caso si torna al punto filosoficamente più problematico della maternità surrogata, sia gratuita che commerciale: «Non si può trattare una persona come una cosa, anche se la si scambia gratis». L’esempio che la filosofa cita è semplice: «Se io fossi vittima di un’amnesia e non sapessi più di essere sposata, mio marito potrebbe cedermi? Le leggi e le norme etiche delle società occidentali non lo permettono, perché subentra il concetto di proprietà e di responsabilità». In altre parole, non si può vendere o regalare qualcosa che non si possiede. Dall’abolizione della schiavitù in avanti, le persone non possono essere possedute da altri. Il concetto della responsabilità dei genitori è più sottile ma ancora più profondo, a detta della filosofa di estrazione laica. Se la funzione della responsabilità dei genitori è di fare in modo che il bambino sia curato e guidato fino all’età adulta, non può essere abbandonata e trasferita semplicemente sulla base delle preferenze o dei desideri degli adulti senza considerare a fondo le implicazioni biologiche e psicologiche per il bambino. «È un principio giuridicamente accettato – conclude Weinberg – che si applica anche nelle adozioni e nei casi di custodia».