La galassia umana dell’atletica leggera è popolata di ultimi arrivati al traguardo, di buoni atleti, di campioni. Poi ci sono gli olimpionici, i fenomeni e infine la razza rara, e non sempre protetta, quella dei “rivoluzionari”. Una stirpe che potremmo far iniziare dal nostro Dorando Pietri, l’eroico fornaretto di Carpi che sfinito tagliò il traguardo delle Olimpiadi di Londra 1908 facendo piangere persino la regina d’Inghilterra. Il primo “figlio del vento” (molto prima di Carl Lewis) Jessie Owens, ai Giochi nazisti di Berlino 1936 costrinse Adolf Hitler ad ammirarlo. Più forte della Primavera di Praga c’è stato solo Emil Zátopek, il primo a scendere sotto i 29 minuti nei 10.000 metri. Il ’68 delle barricate, delle proteste studentesche e degli uomini i rivolta che chiedevano il sacrosanto rispetto dei diritti umani, sta tutto in quel podio dei Giochi di Città del Messico: il pugno chiuso, guantato, dei “Black Power” Tommie Smith e John Carlos. Proprio in quell’autunno caldo a Cuba cominciava ad allungare il passo un atleta diciottenne, Alberto Juantorena Danger. Il ragazzo dalla falcata più lunga di Usain Bolt (270 centimetri contro i 244 del cubano) fanno notare Roberto Borroni e Adalberto Scemma in apertura del prezioso libro
La rivoluzione di corsa dedicato al carismatico e combattente Juantorena. E, 36 anni prima di Bolt, il cubano alle Olimpiadi di Montréal aveva centrato l’allora inedita doppietta: l’oro nei 400 e negli 800 metri. Una galoppata incredibile che da allora gli è valso l’appellativo di “El caballo” (il cavallo). Un purosangue nato a Santiago de Cuba, «nella zona più rivoluzionaria e ribelle dell’isola caraibica», che il giorno del suo primo oro olimpico non voleva sentir parlare di titolo storico: «Domani – disse – è l’anniversario dell’assalto alla caserma Moncada di Santiago de Cuba, la mia città. Il sangue che Fidel Castro e i suoi compagni hanno versato quel giorno, quello sì che è storico». A quell’impresa con Fidel e il fratello Raúl Castro, partecipò anche un italiano, Gino Donè; con loro c’era l’idolo assoluto del giovane mezzofondista: Ernesto Guevara, il “Che”. L’uomo che ha segnato il suo cammino, anche di sportivo, così come quello del principe dei massimi, oro anche lui a Montréal ’76: il pugile Teófilo Stevenson. Alberto e Teófilo uniti nella scelta di restare dilettanti a vita nella loro amata Cuba e quindi rispondere con un perenne «no» al capitalismo e alla diabolica tentazione dei dollari americani. Quando Stevenson venne invitato a passare al professionismo per sfidare il re dei massimi Cassius Clay rispose: «Cosa valgono cinque milioni di dollari, se ho l’amore di otto milioni di cubani». E il suo compagno di lotte Juantorena ancora oggi continua a ripetere: «Solo la gente senza ideali corre dietro al denaro. Pensano di andare negli Stati Uniti e diventare ricchi, ma dentro sono vuoti, hanno venduto l’anima. Noi preferiamo rimanere a Cuba per aiutare il nostro Paese». Dopo il recente incontro – fortemente voluto da papa Francesco – tra Raúl Castro e Barack Obama, qualcosa sta cambiando, ma il poderoso Alberto – che ragiona da fine politico: è stato viceministro dello Sport – tiene sempre alta la guardia rispetto a quella che considera una delle piaghe dello sport odierno: «La compravendita di atleti da un Paese all’altro, keniani che cambiano nome per gareggiare con il Qatar o somali che indossano la maglia della Turchia. Gli atleti sono una ricchezza, ma non da esportazione». Ideali appresi dall’ex allievo dei programmi Eide, «la Scuola di educazione sportiva scolastica affidata a un gruppo di tecnici e specialisti d’avanguardia», spiegano Borroni e Scemma. L’Eide è stata l’altra rivoluzione pienamente compiuta da Fidel e dal “Che”. Una metamorfosi psicofisica della gioventù cubana che portò questo piccolo Paese (oggi ha poco più undici milioni di abitanti) ai vertici dello sport mondiale. A Barcellona 1992, con 14 medaglie d’oro, 6 d’argento e 11 di bronzo, Cuba divenne la quinta potenza olimpica mondiale. A Montréal la squadra cubana era già entrata tra le prime dieci nazioni (8° posto nel medagliere) e Juantorena da portabandiera in pista dei diritti civili di tutti gli oppressi e gli ultimi della terra, oltre al suo antirazzismo in ricordo del boicottaggio dei Paesi africani sbandierava all’universo diffidente e anticastrista: «Se sono diventato un campione è stato grazie a chi mi ha assistito e mi ha permesso di arrivare a certi risultati senza dovermi eccessivamente preoccupare di quei problemi di vita che assillano molti atleti di nazioni con altri sistemi sportivi e che a volte ne condiziono i risultati». I suoi successi furono anche quelli di altri piccoli eroi dello sport cubano, da Javier Sotomayor, primatista del salto in alto in carica con 2,45, alla mezzofondista Ana Fidelia Quirot, dal saltatore in lungo Iván Pedroso all’ostacolista oro olimpico a Pechino Dayron Robles. Pronto a saltare a Rio 2016 è il triplista Pedro Pablo Pichardo, uno dei pochi astri di un movimento in crisi.Agli ultimi Giochi Panamericani di Toronto, per la prima volta Cuba non si è piazzata nei primi due posti, ma solo quarta (dietro a Usa, Canada e Brasile). «L’ossessione del medagliere è un lascito della guerra fredda», scrivono Borroni e Scemma. Di certo, pare anacronistico il guanto di sfida agli Usa gettato da Fidel nell’ormai lontano 1962: «Quando gli yankee si decideranno a competere con la nostra Patria - disse Castro - allora li vinceremo nel baseball e si potrà provare la superiorità dello sport rivoluzionario su quello capitalistico». Le cose nell’Isola sono molto cambiate. Negli ultimi quindici anni oltre cinquanta atleti cubani (uomini e donne) sono fuggiti, rinnegando per sempre il regime castrista, ma altri sono fuoriusciti con il benestare delle autorità de L’Avana. È il caso di Osmany Juantorena, talentuoso nipote di Alberto, che ora milita nella serie A italiana, nella Lube Treia. Ma il primo professionista è stato riconosciuto da poco (gennaio 2015), è il pallavolista Javier Jimenez che ha firmato per il Paok Salonicco. Tutti ragazzi che, per vie diverse e talora distanti, seguono la scia de “El Caballo” che continua a vivere lo sport e il suo Paese con lo stesso romanticismo del poeta rivoluzionario Josè Martì: «Coltivo una rosa bianca. In giugno come in gennaio. Per l’amico sincero che mi da la sua mano franca».
Roberto Borroni e Adalberto Scemma La rivoluzione di corsaAss. Pagine 96. Euro 10,00