Il primo ricordo è che faceva caldo. Quell’umido sospeso, che fa intuire che qualcosa debba accadere per forza. L’ultima consapevolezza invece, trent’anni dopo, è che quella tragedia immane e folle molto abbia cambiato. Chi c’era, non potrà mai dimenticare. Perchè la sera del 29 maggio 1985 il calcio ha smesso per sempre di essere un gioco.La scintilla del massacro si accende alle 19. 07, più di un’ora prima della partita. Bruxelles sembra cupa e infastidita, quasi offesa nella sua ingiustificata supponenza per dover ospitare Juventus e Liverpool, la finale di Coppa Campioni. Lo stadio si chiama Heysel, e per fortuna oggi non c’è più: vecchio, crepato, senza posti numerati, privo di qualunque sistema di sicurezza. Lo scriveremo dopo, guardando un tappeto di morti. E sarebbe stato meglio accorgersene prima. Chissà se segnalare il pericolo sarebbe servito almeno ad allertare le forze dell’ordine per arginare l’inumana aggressività degli hooligans inglesi che premevano dal loro settore, ebbri di alcol, verso il settore Z, una fettina di spalti che divideva dallo spicchio di stadio destinato agli juventini. Non era prevista nessuna presenza di tifo organizzato nel settore Z. Ma per vari canali, dai bagarini alle rivendite belghe e le agenzie viaggio che si erano procurate quei biglietti, in quel settore c’erano finiti in troppi, nemmeno tutti juventini e nessuno ultrà.Eravamo lì per una partita di calcio. E il film che rimane di allora invece è solo quella processione dai sotterranei dello stadio: barellieri, infermieri, medici e poliziotti. Quello che è diventato poi un improvviso bollettino di guerra, quella sera - tardi, molto più tardi - parla di 39 morti, quasi tutti italiani, moltissimi con la cassa toracica schiacciata contro i muri di recinzione, altri con la gola aperta dalle punte metalliche che chiudono le transenne. Spinti e in fuga, dal terrore di vedersi arrivare addosso decine di inglesi ubriachi e indemoniati che stipati nel loro settore hanno cominciato ad ondeggiare paurosamente, cercando poi spazio vitale al di là delle transenne. Fragili come reti di zucchero cristallizzato.Non un poliziotto presidiava quella ridicola barriera. Loro, a cavallo, con quegli stupidi caschi bianchi, stavano in campo, rivolti verso la morte che avanzava. Immobili, impettiti, decisi a fare nulla se non ad impedire che la gente si riversasse in campo. L’unica via di fuga cioè, l’unica salvezza che loro, idiotamente istruiti a questo, difendevano con i manganelli.Quando di colpo la gente è cominciata a scappare sotto i colpi degli energumeni inglesi si è scatenato il panico. Scagliavano mattoni, bottiglie e colpivano con un’incoscienza bestiale. Gli italiani sono precipitati l’uno sull’altro travolgendosi a vicenda, cercando scampo. Quattro-cinque mila persone si sono accalcate contro il muro di recinzione laterale sbandando e precipitando dalle gradinate. Finchè il muretto cede, diventando una tomba per alcuni, e un varco di salvezza per altri.Sono le 21.40 quando, incredibilmente, si decide che la partita inizia lo stesso. Difficile dimenticare la voce di Gaetano Scirea, capitano della Juventus, che sussurra nel microfono dell’altoparlante: «Giochiamo per consentire alle forze dell’ordine di organizzare l’evacuazione del terreno. State calmi, non rispondete alle provocazioni. Giochiamo per voi...». In un clima irreale, vince la Juve 1-0 grazie ad un rigore inesistente. La verità è che nessuno sa come far uscire cinquantamila nemici dallo stesso luogo senza altri incidenti: la partita è solo un grottesco tentativo per prendere tempo. Forse inevitabile davvero, ma stonato comunque. «Quando al circo muore il trapezista, entrano i clown», disse Michel Platini un anno dopo. Allora sembrò una bestemmia, ma era qualcosa di assai più orribile e definitivo. Era la verità. Due ore dopo nella curva del massacro invece sono rimasti soltanto i resti della tragedia e delle transenne usate come barelle. Documenti, sciarpe, bandiere, vestiti stracciati, scampoli di vita che non appartengono più a nessuno. E gente che piange, che si cerca, che non sa come avvisare casa di esserci ancora nonostante quelli che non ci sono più. Il 26 giugno del 1990, cinque anni dopo, in un tribunale di Bruxelles, Otello Lorentini, presidente dell’associazione vittime dell’Heysel, padre di Roberto, morto a 31 anni nella curva Z perché si era fermato a soccorrere qualcuno che era a terra (e che per questo ebbe la medaglia d’argento al valor civile), conquistò la sua più grande vittoria. Non certo le ridicole sentenze penali: 10 mesi di carcere al massimo, e non per tutti i colpevoli, 2 miliardi di lire il risarcimento per le vittime (in gran parte arrivati da donazioni private). Ma quel giorno i giudici sentenziarono che l’Uefa non poteva declinare ogni responsabilità. Da allora gli stadi devono avere posti numerati, controlli rigorosi, uscite di sicurezza, separazioni vere tra le tifoserie, biglietti nominali, polizia sufficiente.Il resto è ricordo, dolore. Tante storie, tante sofferenze. Uomini, donne e bambini: Andrea Casula, 11 anni e mezzo, la vittima più giovane. E i loro parenti costretti a convivere con un nome, Heysel, e con la stupidità degli uomini. Come i genitori di Giuseppina Conti, 17 anni, di Arezzo, che mesi dopo si videro recapitare da Bruxelles il conto dell’ambulanza.