venerdì 12 febbraio 2016
Vita da clochard: così l’“altro Schillaci” è finito in fuorigioco
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Una vita in fuorigioco, un presente da clochard dopo aver assaporato lustrini, fama e successo del calcio professionistico. È la storia del meno noto degli Schillaci, Maurizio, cugino di Totò, ex calciatore, con una carriera che, dopo la crescita nelle giovanili del Palermo, spiccò il volo, nel 1984, nel Licata dei miracoli di Zdnek Zeman per poi approdare, in serie B, alla Lazio, guidata da Eugenio Fascetti, che riuscì a soffiarlo al Foggia del presidente Casillo. Un giovane regista siciliano, Davide Vigore, ha raccontato la parabola esistenziale di Maurizio Schillaci nel documentario Fuorigioco, in collaborazione con Domenico Rizzo. Un lavoro dove, in una Palermo sotterranea e oscura, immerso nella folla, c’è l’ex giocatore di talento e la sua solitudine. «Ho voluto fare questo film - dice Davide Vigore - partendo da un interrogativo: cosa c’è dopo il successo, essere acclamati, avere soldi, donne, macchine, avere la consapevolezza di essere qualcuno e poi sapere cosa si prova a perdere tutto questo. La risposta è la solitudine, ma una solitudine immersa nella folla che fa ancora più male. Perché essere soli in un luogo sicuro, come casa tua, per alcuni soggetti può anche essere una condizione soddisfacente ma la solitudine senza un posto fisso, senza un posto tuo, avvolta nella moltitudine, è devastante. Queste considerazioni mi hanno spinto a cercare un personaggio con queste caratteristiche ». Totò Schillaci, il bomber delle “notti magiche” dei Mondiali di Italia ’90, quando parlava di suo cugino Maurizio usava sempre un aggettivo: «fuoriclasse». Zeman lo considerava un «grande talento, un fenomeno da un punto di vista tecnico ». A metà degli anni Ottanta, con la maglia gialloblù del Licata, Maurizio Schillaci segnò 22 reti in 66 partite. Il tecnico boemo, che non ebbe mai dubbi su di lui, disse che avrebbe potuto giocare in una big, avendone mezzi, colpi ed intelligenza calcistica. Un trequartista di grande eleganza, imprevedibile, vero incubo per tanti portieri. Nella stagione 1986-’87, Schillaci vestì la maglia biancoceleste della Lazio.  Un’annata molto difficile per la squadra biancoceleste, zavorrata in B da una penalizzazione di nove punti per il coin- volgimento nello scandalo “Totonero-bis”. Un handicap che costrinse la squadra di Fascetti agli spareggi per evitare la retrocessione in serie C, salvata dal gol di Fabio Poli nella sfida decisiva, al san Paolo di Napoli, contro il Campobasso. In quella squadra, passata alla storia come «Gli eroi del -9», Maurizio Schillaci trovò, tra gli altri, il portiere Giuliano Terraneo, Angelo Gregucci, Marino, Podavini, Magnocavallo, Mimmo Caso, Acerbis, il bomber Giuliano Fiorini e Paolo Mandelli. L’arrivo a Roma portò al giocatore siciliano soldi, ville, lusso ed una maggiore visibilità calcistica. Ma la vita, a volte, riserva i colpi peggiori in modo repentino e proprio quando tutto sembra andare per il verso giusto. Così, la favola di Schillaci prese la direzione opposta, virando verso il dramma e la discesa negli inferi dell’emarginazione e della solitudine. Un infortunio, mai curato, limitò ad appena 11 presenze la sua stagione in maglia biancoceleste, impreziosita da un solo gol, descuola cisivo, nella sfida del Sant’Elia contro il Cagliari del 21 dicembre ’86. Gli diedero del «malato immaginario» e ci fu anche chi gli affibbiò l’etichetta di «calciatore misterioso». Inevitabile la cessione a fine stagione. Schillaci passò al Messina dove trovò suo cugino Totò. Nella città dello Stretto scoprirono le cause dei suoi guai fisici: un tendine bucato. Ma era ormai troppo tardi per intervenire e riportarlo alla piena efficienza fisica. Dopo 22 presenze in due stagioni, Maurizio Schillaci passò alla Juve Stabia nel 1989. Un’altra stazione del suo calvario, contrassegnata dall’incontro, nefasto, con la droga: cocaina ed eroina. Matrimonio finito, spariscono gli amici insieme ai contatti e ai contratti. Schillaci perse tutto, sperperando il denaro guadagnato.  Tornò a Licata nel ’92 ma ormai la sua carriera era finita. Ridotto a senzatetto, costretto ad elemosinare per le strade di Palermo, dopo essere finito anche in prigione, Maurizio Schillaci passò dalla gloria all’abisso in pochi anni. Un tragitto tragico, veloce ed inesorabile, per certi versi simile a quello dell’attaccante inglese, ex Arsenal, Paul Vaessen. Rischiò anche l’overdose dopo essersi iniettato un grammo di cocaina in vena. Quando suo cugino Totò lo chiamò ad allenare i bambini della sua calcio, tanti genitori non gradirono la presenza di un ex tossico e Maurizio cambiò subito aria, senza indugi. Nel documentario Fuorigiocofa capolino anche il tema della precarietà del mondo del calcio. «Un calciatore ha successo e tutto quello che ne consegue - aggiunge Davide Vigore - ma è un successo che, nella più rosea delle previsioni, dura per dieci, forse quindici anni. Ecco perché la storia mi è sembrata perfetta. Lo stesso Maurizio sembra scritto da uno sceneggiatore, per il suo aspetto fisico, la sua bellezza consumata, un fisico alto e fragile, una giovinezza che lascia spazio alla depressione, il non prendersi sul serio ma affondando le cose serie della vita. Un contenitore così vasto che mi ha premesso si raccontare alcune mie paure». Un film diventato un’esperienza di vita. «Grazie a questo progetto ho avuto la possibilità di conoscere una Palermo sotterranea, oscura, misteriosa. Ho avuto la possibilità di avvicinarmi a delle persone che, sotto i vestiti stile anni Ottanta, sporchi e malandati, nascondono un animo gentile. Esseri umani con un potenziale spazzato da fragilità caratteriali. Questi sono i personaggi presenti in Fuorigioco ». I primi giorni di lavorazione sono stati complessi. «Non abbiamo avuto subito un feeling con il nostro protagonista, - ricorda il regista - ma è stata una conquista giornaliera. Dopo qualche giorno c’è stato un totale abbandono da parte di Maurizio nei miei confronti e io nei suoi. Ci siamo fidati l’uno dell’altro, credo che sia questa una delle carte vincenti del film».
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