Sergio Endrigo tra le tante bellissime canzoni scrisse un romanzo - molto autobiografico - dal titolo ironico, amaro fin dal titolo:
Quanto mi dai se mi sparo?. Questa potrebbe essere anche l’autobiografia di Marieke Vervoort, triatleta, medaglia d’oro a Londra 2012, che alla vigilia della sua gara paralimpica brasiliana annuncia: «Dopo Rio, mi uccido». Una dichiarazione agghiacciante rilasciata mesi fa a un quotidiano belga, ripresa da fonti australiane e messa in pasto alla solita pubblica approssimazione che capendo poco di sport paralimpico non ha trovato di meglio che sguazzare nella delicatissima e fragilissima situazione di Marieke. Affetta da oltre vent’anni da una grave malattia neurodegenerativa che l’ha costretta su una sedia a rotelle dal 2008, la 37enne atleta belga si è lasciata andare a uno sfogo in cui ha sottolineato come la malattia sia profondamente peggiorata e le provochi dolori insopportabili, tanto da tenerla spesso sveglia per tutta la notte. Effetto collaterale dello scarso riposo di Marieke sono i continui svenimenti che la costringono a essere monitorata e soccorsa. «La mia carriera finirà con Rio ha spiegato -. Dopo le paralimpiadi, vedrò quello che la vita avrà ancora in serbo per me, e cercherò di goderla a pieno, ma sto cominciando a pensare all’eutanasia. Nonostante la mia malattia, sono stata in grado di fare esperienze che altre persone possono solamente sognare... ». Un testamento che sa tanto di morte in diretta, riproposta proprio all’inizio della grande festa di quello sport che va alla ricerca di speranze e di un futuro migliore proprio attraverso l’inclusione sociale e la piena condivisione culturale. Ma come si può condividere un pensiero del genere? Come farlo passare a quei 5mila atleti arrivati da tutto il mondo che a Rio hanno scoperto o riscoperto il senso più profondo delle loro esistenze grazie alla convocazione nelle rispettive spedizioni e alla permanenza nel Villaggio olimpico della Barra? È un messaggio triste e privo di speranza quello che sta cavalcando chi non ha la benché minima percezione dello spirito olimpico. Una Paralimpiade è un inno alla gioia, ma fa più comodo ai disfattisti e ai credenti in un disperante “fine vita” rivangare nel pensiero mortale di Marieke quando dice: «Tutti mi vedono felice e sorridente con le mie medaglie, ma non conoscono l’altro lato di me. Ci sono giorni in cui provo dolori terribili... ma alla fine, riesco comunque a vincere la medaglia d’oro. Il segreto è tutto qui, nella testa: quando salgo sulla carrozzina e mi preparo a gareggiare, tutte le mie ansie, timori, paure e dolori sembrano scomparire». Non sopporta più il dolore questa donna che vive in un Paese, il Belgio, in cui l’eutanasia è legale, a patto che sia approvata da almeno tre medici. Spetta alla loro coscienza decidere se assecondare la volontà suicida della Vervoort che ha fatto sicuramente notizia quando ha annunciato di voler morire dopo i Giochi di Rio, programmando anche l’estremo saluto: «Non voglio che il mio funerale sia tenuto in chiesa. Voglio che tutti i presenti abbiano un bicchiere di champagne e facciano un brindisi per me: “Auguri, Marieke. Hai vissuto una bella vita. Ma ora sei in un posto migliore”». Cara Marieke, il posto migliore al mondo è quello in cui ti trovi ora, i Giochi di Rio de Janeiro. E la medaglia che dovresti conquistare non è quella d’oro, ma quella «invisibile», come la chiama il presidente del Comitato italiano paralimpico Luca Pancalli. È la medaglia di chi si fa esempio e punto di riferimento per tutti coloro che sono rimasti su una sedia a rotelle o hanno subito una menomazione fisica permanente. La Vervoort ha dieci giorni per vincere la medaglia invisibile e regalarla alla maggior parte del mondo che da lei si aspetta un’altra cosa: che cambi idea, abbracci forte la vita e scacci via per sempre il cattivo pensiero del suicidio.