È ambientato su Marte,
Sopravvissuto, ma è un film di fantascienza diverso da quelli che Ridley Scott, il regista inglese che pure ha rivoluzionato le regole del genere con due capolavori come
Alien e
Blade Runner, ci aveva abituati a vedere. Niente extraterrestri cattivi o androidi fuori controllo, niente guerre stellari né incontri ravvicinati di alcuni tipo. L’astronauta Mark Watney è tutto solo nel deserto dell’ostile Pianeta Rosso come Robinson Crusoe e il Tom Hanks di
Cast Away erano soli sulla loro isola deserta. È solo perché l’equipaggio della missione spaziale alla quale partecipa lo ha creduto morto in seguito a una violentissima tempesta ed è stato costretto ad abbandonarlo per mettersi in salvo e ripartire precipitosamente per la Terra. E invece, sorpresa, Mark è vivo e deciso a rimanerlo. Fortunatamente è un biologo e quindi prima di tutto trova il modo di far crescere le patate usando i propri escrementi come concime e procurandosi l’acqua scatenando una reazione chimica. Raziona le scorte a disposizione, progetta la sua esistenza per quattro anni in attesa della prossima missione su Marte, ma soprattutto riesce a mettersi in contatto con Huston utilizzando apparecchiature vecchie, ma ancora funzionanti. È a questo punto che il film comincia a seguire due binari: da una parte la lotta di Mark per la sopravvivenza, dall’altra i tentativi della Nasa per andarselo a riprendere. Più dello spettacolo, Scott cerca il realismo della vita quotidiana su Marte e, se pure le implausibilità non manchino, non vi è alcun dubbio che Matt Damon, con la sua aria da bravo boy scout (in
Interstellar invece era un astronauta mosso da meschini intenti), sia capace di cucirsi la pancia, calcolare traiettorie, sperimentare soluzioni estreme pur di salvare la pelle.
Sopravvissuto è la storia del primo uomo al mondo a rimanere solo su un pianeta deserto, eppure Scott non apre mai alla riflessione sul mistero dell’universo, sull’esistenza di Dio. Assente qualunque senso di meraviglia. Anche il paesaggio – nella realtà siamo nel deserto della Giordania – sembra meno epico della Monument Valley di John Ford. Forse meglio così, perché quando il regista ha tentato di porsi delle domande sulle origini e il destino dell’uomo il risultato è stato il pretenzioso e confuso
Prometheus. E neppure entra nel campo del dramma psicologico, anzi. Mentre sulla Terra gli esperti si chiedono terrorizzati quale potrebbe essere l’impatto di tanta solitudine sulla psiche umana, Mark ascolta discomusic, guarda vecchie puntate di
Happy days e registra ironici diari di bordo. Sembra il Walle disneyano più che il Clooney di
Gravity. Qui il regista, a partire dal bestseller di Andy Weir, canta un inno al genere umano, al suo straordinario ingegno, alla sua caparbia voglia di vivere, al suo coraggio, alla sua capacità di combattere e vincere battaglie apparentemente impossibili. Nessuno dei suoi film prima d’ora aveva mai regalato un messaggio di speranza così forte e chiaro. E l’entusiasmo per le missioni spaziali, che certo non spiacerà alla Nasa, potrebbe ispirare le future generazioni di astronauti. Lontano dai suoi vecchi mondi cupi e distopici, Scott ci racconta insomma un eroe di tutti i giorni, che non ha perso il senso dell’umorismo e la voglia di tentare, tra le canzoni di Gloria Gaynor e Donna Summer, David Bowie e gli Abba sempre ironicamente in sintonia con la narrazione.