Sì, in effetti tutto è cambiato, l’abbiamo lasciato compositore («Ma io preferisco scrittore di musica, non sopporto i compositori che non si sporcano le mani, amo i musicisti») e pianista apprezzato in tutto il mondo, e l’abbiamo ritrovato popstar. Bosso si schermisce, e scuote il ciuffo nero. «Io non conto niente, è la gente che ha bisogno di ascoltare altro. Non ha più bisogno di supereroi, ma di avere qualcuno che ci assomiglia, persone come noi – racconta in esclusiva ad “Avvenire” il maestro, che dal 2011 convive con una ma-lattia neurodegenerativa –. Io sono fortunato, la musica di cui mi occupo deve essere fatta bene, non ha bisogno di luci, noi ci mettiamo a nudo. È talmente assente la delicatezza, la fragilità, la sincerità e la storia che quando arriva ci stupiamo. Ci stupiamo di vedere noi sul palco». A Cagliari ha voluto incontrare ieri gli studenti del conservatorio, i musicisti, i professori in una di quelle lezioni aperte e gratuite che il torinese Bosso usa fare per condividere la musica. «È la prima volta che tengo il mio “Studio aperto” al di fuori di Palazzo Barolo a Torino, dove abita uno dei miei pianoforti e dove tengo due lezioni all’anno aperte a tutti», racconta mentre gli si avvicina una biondina col papà. «Mi chiamo Letizia, ho undici anni, suono il violino, canto ma ho iniziato col pianoforte. Mi fa un autografo?», gli chiede svelta. «Avevo la sua età quando frequentavo il conservatorio di Torino ed ero terrorizzato da un “cattivo maestro” che mi maltrattava – ricorda l’artista –. In un certo senso mi ha salvato John Cage, che un giorno entrò mentre mi maltrattava, mi ascoltò e disse “A me sembra molto bravo, perché grida?”». E per fortuna, altrimenti non avremmo avuto un musicista capace di guidare la London Symphony Orchestra, quella del Regio di Torino e quella della Scala e capace di collaborare con tanti artisti di fama mondiale. «Noi siamo il risultato della nostra esperienza. Ho imparato a reagire al brutto con la bellezza, all’odio con l’amore e al maestro cattivo diventando un maestro compassionevole e buono ». Ride di nuovo, come se avesse esagerato. Ma non è così, e lo possono assicurare le decine di ragazzi a bocca aperta, tra i velluti rossi dell’auditorium, davanti a un uomo capace di scherzare sui suoi impedimenti fisici e eclissarli con una carica di simpatia, umanità e professionalità uniche. «La musica non è una gara. La competizione ha la radice “cum” che in latino vuol dire insieme e non contro», spiega ai ragazzi. «Allora, avanti, chi ci vuol mettere le mani?», esclama indicando il pianoforte. Nessuno osa, poi Giulia dodici anni, rompe il ghiaccio. Sale sul palco per suonare Mozart, ma non riesce a spiccicare una nota. Bosso le si avvicina, e la convince con dolcezza: «Ti fidi un po’ di me? Qui bisogna sbagliare se no non ci divertiamo, senza errori non miglioreremo».
Giulia prova, si inceppa, ma poi fila via liscia. Poi tocca alla quindicenne Francesca, che corre troppo sulla colonna sonora del Favoloso mondo di Amélie e il musicista la corregge attento. «Vi do una notizia: non pubblicherò mai partiture, è una questione di responsabilità. Dovremmo frequentare Bach ed evitare Bosso». Si ride, si stecca, si raccontano aneddoti, si parla di Emily Dickinson e di come essere musicisti e soprattutto uomini, perché, come sostiene lui «la musica è la vita, aiuta a conoscere meglio se stessi e anche gli altri». Ormai tutti alzano la mano in platea per suonare. È tutto un via vai di violini, oboi, trombe. Alessandro è un jazzista che suona il basso elettrico. «Apprezzo moltissimo l’aspetto umano dell’educatore che ti dice, attento, io ci sono passato, certe buche le puoi evitare. È molto divertente – spiega –. Io metto al servizio quello che so, ma io imparo da voi. Mi raccomando l’ascolto, da tutti avremo occasione di imparare». Dopo quello che lui definisce l’“incidente”, Bosso ha cominciato a ragionare su come occorra «perdere i pregiudizi, i problemi, le paure e imparare da ciò che vediamo e sentiamo. Oggi si punta solo sul sentimento, e non sul sentire, sull’emozione e non sull’aprirci alla comprensione. La musica ci aiuta a capire meglio l’altro e a non avere paura».
Ed è proprio attraverso la musica che Bosso ha ricominciato, caparbiamente a tornare alla luce, trasformando il dolore, i silenzi, le immobilità e le attese in brani che scavano nel profondo. «La serenità? Accettare se stessi è fondamentale, io sono fortunato, sorrido sempre. Ero così anche da ragazzino, non penso molto a me stesso ma agli altri. Certo, ho dovuto anche re-imparare a sorridere – racconta, senza imbarazzi –, sorridere avvicina gli altri. Ma d’altronde quando hai tanta bellezza davanti, Bach, Chopin, come fai a non sentirti fortunato? Spero che il mio benessere arrivi agli altri». Non a caso nel disco e nel concerto Bosso, oltre alle proprie composizioni, interpreta appunto, Bach, Chopin, Gluck con tono personalissimo e delicato. «È sbagliato parlare di musica classica. Io parlo di musica libera, che è di tutti. Le partiture sono l’ultimo atto di un uomo, della sua ricerca della sua vita e tu da interprete devi fare ascoltare a chi è davanti a te il processo al contrario, farlo tornare alla persona che l’ha scritta. Una promessa. Se diventerò direttore artistico di qualche istituzione aprirò le prove a tutti». A un artista che ha dedicato il suo album al ciclo della vita è inevitabile chiedere che rapporto abbia con Dio. La risposta per lui è ovvia: «Suono Bach, quindi mi rapporto ogni giorno col divino. Tutti, tutti i giorni, ci rapportiamo col divino, in un modo o in un altro, poetico, religioso, critico. Fa parte del nostro essere umani. Io potrei definirmi diversamente credente oppure sono uno così ateo che non sopporta gli atei. Piuttosto direi che alla giustizia divina ci credo, non a quella degli uomini attraverso Dio. Credo nella vita, e non ho rapporto con la morte come una chiusura. Ho dedicato la composizione Sixt breath, sesto respiro, all’ultimo respiro, che è quello che continua a vagare, continua in un altro modo negli altri, noi continuiamo a esistere. Noi facciamo di tutto per dimenticare che siamo un ciclo di vita e non un ciclo di morte».