Da giovedì, quando è scoppiata la bufera sul caso di Giulia Ligresti, dopo aver negato «interferenze» e aver dato la disponibilità a riferire in Parlamento, il Guardasigilli Anna Maria Cancellieri, fedele allo stile di una vita da
civil servant, ha adottato la linea sobria del silenzio. Solo una breve dichiarazione: «Intervenire è compito del ministro della Giustizia, non farlo sarebbe un’omissione. Mi sono comportata, nello stesso modo quando sono pervenute al mio Ufficio segnalazioni, da chiunque inoltrate, che manifestassero preoccupazioni circa le condizioni sullo stato psicofisico di persone in stato di detenzione...». Lo scetticismo, in politica e nel giornalismo, è d’obbligo. E molte affermazioni rigorose pronunciate al mattino si rivelano infondate alla sera. Ma quanti hanno accompagnato il ministro nelle carceri e condividono, seppur ai piani bassi, il lavoro ministeriale, riferiscono di episodi che testimoniano di un silenzioso interessamento in favore di bisogni, grandi e piccoli, espressi a voce o «a mezzo lettera» da detenuti qualunque, senza amicizie altolocate o cognomi importanti. È il caso, ad esempio, delle lettere che quasi quotidianamente giungono al Dap, come quella (visionata da
Avvenire, che ha scelto di non riportare le generalità) scritta da R., campano 48enne «allocato in una casa lavoro» dell’Emilia Romagna in procinto di essere trasferito a Favignana, nel Trapanese, «difficilmente raggiungibile dai familiari, che risiedono in Campania». Per evitarlo, il detenuto attua uno sciopero della fame, rifiuta di assumere medicine e scrive al ministro. A metà agosto R. viene trasferito in una casa lavoro in Abruzzo, più vicina alla sua famiglia, e le sue proteste terminano.Oppure c’è la toccante raccomandata di A., moglie di un recluso pugliese (fine pena 2016). La signora comunica di aver inoltrato richiesta di grazia al capo dello Stato e allega le cartelle sanitarie sulla propria, grave, malattia, che potrebbe impedirle di prendersi cura dei figli piccoli. Il marito ha già chiesto di scontare la pena residua (inferiore a 3 anni) attraverso misure alternative e il magistrato di sorveglianza ha «disposto l’osservazione scientifica» del detenuto e fissato un’udienza il 10 dicembre. Accanto a vicende private, ci sono quelle divenute di dominio pubblico, come la storia sconcertante, rilanciata a luglio da molti giornali (da
Repubblica al
Foglio), di Stefano Carnoli, fine pena 2017 e detenuto modello del carcere di Padova: lavorando come bibliotecario. Carnoli si è guadagnato l’encomio della direzione e la possibilità di permessi esterni. Ma condivide una cella troppo stretta e i suoi reclami, sulla base delle sentenze della Corte di Strasburgo, vengono accolti da un giudice di sorveglianza, che ne dispone il trasferimento a Cremona, dove avrà una cella più ampia. Ma per Carnoli è una beffa, perché ama il suo lavoro e nel carcere cremonese, che non ha una biblioteca, non potrà svolgerlo. Le associazioni in difesa dei detenuti fanno eco alla sua voce, il ministero la ascolta e Carnoli torna a Padova e ai suoi amati libri.Ma forse gli appelli che più scuotono il ministro sono quelli esposti a voce dagli uomini e dalle donne che incontra dietro le sbarre, nelle visite dentro i penitenziari. Non sempre possono essere accolti: a Sollicciano, il 28 luglio, una donna le confida pubblicamente i suoi problemi di tossicodipendenza, chiedendo di essere affidata ad una comunità di recupero. Il ministro prende nota, ma quando i tecnici del Dap le comunicano l’esistenza di oggettivi impedimenti normativi, si ferma, poiché non sarebbe possibile dar seguito alla richiesta.
Dura lex, sed lex, spiegano al Ministero. È il credo laico della Cancellieri, ministro «umanitario» ma rigoroso: «Ai detenuti ho detto che mi impegnerò per rendere sempre più civili le loro condizioni di vita. Avrò grande attenzione ai loro bisogni», è stata la sua promessa il 2 maggio nella prima visita a Regina Coeli, cinque giorni dopo l’insediamento del governo Letta. E quelle richieste accolte indicano che voglia mantenerla.