«Ci siamo mossi due settimane fa dalla Turchia», racconta Hassan mentre con la schiena curva procede come una chiocciola che si trascina quello che resta dei propri averi: pochi vestiti, qualche monile regalato alla moglie, i giocattoli per il figlio di sei anni, i quaderni per non dimenticare l’aritmetica neanche durante l’avventuroso pellegrinaggio. A lui e agli altri cento mancano trenta chilometri, prima di raggiungere Veles, dove ad attenderlo ci saranno i bus (a pagamento) diretti al confine Nord.
«In un giorno ce la faremo. Siamo allenati, purtroppo».
La polizia ha cambiato atteggiamento. «Eseguiamo gli ordini – si schermisce uno degli ufficiali alla frontiera con la Grecia –, ma a un certo momento anche tra i miei ragazzi sono nati malumori. Non volevano più usare i manganelli. C’erano donne e bambini e anche tra di noi ci sono figli di profughi della ex Jugoslavia». Temendo un ammutinamento, da Skopje è arrivato il contrordine: «Fateli entrare e consegnategli un lasciapassare di 72 ore». Quando si è sparsa la voce, tra i rifugiati è partito un applauso. «Solo che non avevamo né computer né elettricità e dalla capitale ci hanno messo una settimana a mandarceli». Sette giorni per far fare 150 chilometri a quattro pc portatili.
Da venerdì 2mila persone al giorno si mettono in cammino cercando il modo più rapido e sicuro per compiere i 170 chilometri che separano confine greco e serbo. In pochi attraversano la Macedonia interamente a piedi. Intorno ai profughi si è sviluppata un’economia informale, fatta di biciclette usate, motocicli da buttare, vecchi minivan rimessi in sesto per un’ultima corsa.
Da alcuni giorni circolava una leggenda, quella di profughi accompagnati da uomini armati, ma in borghese. Tutto vero. All’inizio alcuni giornalisti di un’emittente locale, che per timore di ritorsioni anche governative chiedono di non essere citati, pensavano si trattasse di militari incaricati di far accelerare il passo ai profughi. «Invece, si tratta di mafiosi macedoni, bulgari, serbi e kosovari, che tengono al sicuro il "carico". A Kumanovo, al confine serbo, passano di mano ai trafficanti kosovari della valle di Prestovo. Li abbiamo visti con i nostri occhi», assicurano. Una presenza apparentemente senza ragione. Non nei Balcani: «Ci sono dissidi tra bande di contrabbandieri e ogni clan protegge i "propri" migranti».
Quando finalmente la carovana che abbiamo seguito da Gevgelija, la piccola Las Vegas macedone al confine con la Grecia, raggiunge Prestovo, in Serbia (ma sotto l’influsso delle gang di Pristina), i più si sentono sollevati. Non è il muro d’Ungheria a preoccuparli, ora che sono qui sanno che in un modo o nell’altro resteranno in Europa. «Siamo in troppi, non possono tenerci qui. È questione di tempo», osserva Aisha, 25 anni e una laurea in Legge a Damasco. «Tutti quelli che conosco si stanno muovendo. Molti lasciano i campi profughi in Turchia perché in Siria non c’è speranza di tornare».
Non fa in tempo a spiegarlo che Hassan riceve un sms da Atene. «Altri 2.500 ce l’hanno fatta e in due giorni raggiungeranno Salonicco, poi faranno il nostro percorso», riferisce. I media greci moltiplicano: 4mila persone soccorse solo ieri. Qualche giorno fa a Pristina un "mediatore" sedicente ceceno ci aveva illustrato i percorsi studiati dai trafficanti per aggirare il muro ungherese. Ieri si è appreso che Croazia e Bosnia si stanno attrezzando. Il premier croato Zoran Milanovi ha annunciato che il Paese «aspetta a braccia aperte i rifugiati». In Bosnia il dipartimento per gli Affari Esteri ha annunciato che le autorità presidiano i confini naturali, i fiumi Sava e Drina. La nuova porta d’Europa.