sabato 16 maggio 2015
Fino alla Primavera siriana del 2011, erano panettieri, sarti, ingegneri, farmacisti. Oggi sfidano la morte per estrarre dagli edifici le vittime degli attacchi. E seppellire i cadaveri. #free2pray: le iniziative | Il 23 veglia di preghiera
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Rischiano la loro vita per salvarne delle altre, in un contesto bellico in cui pietà e senso del limite paiono non avere più spazio. Sono i “Caschi bianchi”, dal copricapo dei volontari che portano avanti un servizio di protezione civile in un Paese in cui non esiste più nessun’agenzia di pubblico servizio. In sintesi, angeli. Eroi di diverse età, uomini e donne, che di continuo ricacciano la paura giù in gola e, quando ancora tutto intorno è boati, schegge, fiamme, polvere, corrono verso l’epicentro del dramma per trarre in salvo i sopravvissuti e dare una sepoltura dignitosa ai morti. Senza fare differenza di religione o schieramento fra le vittime. Denunciano con la loro sola presenza i misfatti del regime di Damasco contro la popolazione disarmata, certo. Ma anche gli abusi dell’opposizione. Eppure, quando sono all’opera, non esitano a salvare gli uni e gli altri. «Quella è una vita, bisogna fare molta attenzione con la vita», dice con emozione il volontario Khaled Farah, in un video disponibile sul sito ufficiale dell’organizzazione. E, commosso, ripercorre le difficili 12 ore di scavi per liberare dalle macerie un neonato di appena 2 settimane. Il sobborgo in cui il piccolo abitava con la madre era stato colpito da elicotteri delle forze lealiste con le famigerate bombe barile. Un intero palazzo gli era franato addosso eppure quel cucciolo di uomo ancora trovava la forza di piangere disperato. Una telecamera lo inquadra impolverato e violaceo mentre viene estratto dai calcinacci rabbiosamente vivo. A tirarlo fuori sono le mani sbucciate e callose del giovane Khaled, segnato per sempre da quell’incontro con la Vita. L’intervistatore chiede all’Elmetto bianco se abbia mai fatto visita, dopo quel giorno, al piccolino: «Non c’è tempo. I bombardamenti sono continui», è la risposta, accompagnata da un sorriso amaro. I Caschi bianchi, consapevoli della propria impotenza di fronte al protrarsi della guerra, si fanno promotori di una petizione da presentare alle Nazioni Unite affinché si dia seguito alle risoluzioni 2139 e 2209, visto che l’uso di armi chimiche e barili bomba contro i civili, gravi violazioni dei diritti umani, è ormai provato. Nel frattempo, l’opera quotidiana va avanti, sul sentiero in salita rischiarato da “Umanità, solidarietà, imparzialità”, i principi della Protezione civile internazionale. In un’altra esistenza, prima della famigerata Primavera del 2011, i Caschi bianchi erano panettieri, sarti, ingegneri, farmacisti, pittori, falegnami, studenti, professori e altro ancora. La memoria fa strani scherzi: fra i volti presenti sul sito whitehelmets.org, per qualche secondo, credo di individuare il proprietario di una drogheria di Aleppo che con orgoglio, nell’estate del 2007, mi mostrava il poster della cantante Shakira e vantava parentele con i suoi nonni. «Ma non erano libanesi?» Argomentavo io. E quello, da siriano tutto d’un pezzo, assicurava: «Ma il Libano è un pezzo di Siria!». Ora quella leggerezza è passato remoto eppure una galleria fotografica del quotidiano britannico The Guardian immortala due Elmetti bianchi mentre fanno ginnastica, all’alba, nella spettrale Haleb, Aleppo appunto. Gli esseri umani sono sempre esseri umani, per fortuna. Dall’ottobre dello scorso anno, anche una sessantina di donne, addestrate in tecniche di pronto intervento e salvataggio, fanno parte del gruppo volontario: un contributo indispensabile nella Siria settentrionale, dove una cultura patriarcale e tradizionalista impedisce agli uomini di salvare ragazze e donne. «Da sotto le macerie una società nuova sta emergendo», recita uno degli slogan dei Caschi bianchi con sobrietà. Eppure, in quelle poche parole asciutte, umanità e divino, misteriosamente mescolati, vibrano più che in tutti i proclami confessionali urlati al cielo.
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