Wichlaw stringe forte la mano della compagna Selene mentre sbircia da un angolo gli altri bimbi cantare. «Sono diventate inseparabili», spiega suor Rose Monique. Eppure si conoscono da meno di due settimane.Entrambe sono arrivate nel complesso educativo Gesù Buon Pastore – insieme a 148 piccole tra i 4 e i 9 anni – il 3 gennaio. Il giorno, cioè, in cui ha aperto i battenti la prima delle molte strutture sparse in questo quadrato di terra e sassi di 25 ettari alla periferia di Port-au-Prince che le religiose Figlie di Maria Ausiliatrice sono determinate a trasformare in un campus. L’orfanotrofio e l’asilo sono già terminati. «Presto completeremo la scuola», dice suor Rose Monique indicando lo scheletro di un ampio edificio a U. «Settecento bambini potranno costruirsi un futuro qui dentro. Poi faremo un campo da gioco», continua come se già lo vedesse. Wichlaw non ne ha mai visto uno nei suoi otto anni. È sempre vissuta in una baracca dispersa nell’infinita desolazione di Le Plaine, la campagna haitiana alle porte della capitale. Non ricorda di preciso dove abitasse. La morte del padre, qualche mese fa, invece, ce l’ha scolpita nella mente. A quel punto la mamma, una povera contadina analfabeta, ha dovuto «darla via» perché non riusciva a sfamarla. Senza il complesso del Buon Pastore, probabilmente, Wichlaw sarebbe una delle centinaia di migliaia di
restavek, i baby schiavi tuttora esistenti – anche se la legge lo vieta – nel Paese che per primo ha abolito la schiavitù. A spiegare l’ennesimo paradosso haitiano è la miseria estrema. Tanti, costretti a scegliere se far morire di fame – nel significato letterale del termine – il proprio figlio o rinunciare a lui, optano per la seconda strada. E lo affidano a un parente, un vicino o, spesso, a uno sconosciuto che gli offre vitto – poco e di infima qualità in genere – e alloggio – una stuoia sul pavimento – in cambio di servizi domestici: pulire, andare a prendere l’acqua a chilometri di distanza, vendere al mercato. A segnare il confine tra servitù e schiavitù è il “buon cuore” dei “padroni”, o zii, come vengono chiamati. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, nel 2009, un piccolo haitiano su dieci era
restavek, ben 300mila bimbi, in maggioranza bimbe. E gli esperti sostengono che la cifra sarebbe aumentata dopo il terribile terremoto del 12 gennaio 2010, in cui sono morte oltre 220mila persone. Senza casa né genitori e in una situazione di caos generale, i piccoli sono stati – e purtroppo sono tuttora, dato che il piano nazionale di ricostruzione latita – una preda fin troppo facile di schiavisti e trafficanti. «Eppure noi vogliamo trasformare quell’immane catastrofe in opportunità per i bambini – conclude suor Rose Monique –. Come? Creando molte più scuole, istituti di formazione, centri di studio e svago. Solo così potranno essere domani cittadini responsabili e lottare per dare un futuro al Paese». Belle parole? Ben di più per Caritas italiana che ha finanziato – coi fondi raccolti da Caritas Sardegna nella colletta regionale del 2010 – buona parte del complesso Buon Pastore. «La mancanza di istruzione è una delle chiavi per comprendere la povertà. Caritas vuole agire sulle cause di quest’ultima, in accordo con quanto affermato dal Concilio Vaticano II», spiega don Francesco Soddu, direttore nazionale di Caritas italiana. L’educazione è stata uno dei pilastri dell’azione realizzata dall’organizzazione negli ultimi tre anni: più di un terzo degli oltre 17 milioni impiegati per dare il via a 125 progetti sono stati destinati alla formazione. «L’obiettivo è andare oltre l’urgenza, in un’ottica di medio e lungo periodo», aggiunge don Soddu. La stessa prospettiva – ma da un punto di vista differente – che sta guidando la strategia di Unicef per risolvere i drammi dell’infanzia haitiana, la categoria maggiormente vulnerabile del Paese più povero dell’emisfero occidentale. E quella più colpita dal terremoto. Che, però, l’ha catapultata sulla ribalta internazionale. Permettendo – per uno dei paradossi tipici dell’ex perla delle Antille – di dare impulso al cambiamento. «Abbiamo avuto molta più disponibilità di risorse e mezzi. Questo ha consentito di comprendere meglio determinate situazioni e di intraprendere azioni – spiega Stefano Savi, rappresentante di Unicef Haiti –. Che hanno prodotto un risultato importante: la ratifica, l’11 giugno 2012, della Convenzione dell’Aja sulle adozioni internazionali. In Senato è ora in discussione il disegno di legge che aggiorna la normativa nazionale». Chiudendo, così, quello che veniva definito il «supermarket di bimbi a buon mercato per l’Occidente»: le regole erano così blande che bastavano poche centinaia di dollari agli stranieri per portarsi via un piccolo. Perfino dopo il blocco varato in seguito al terremoto, il fenomeno è proseguito. «Per la prima volta, poi – aggiunge Savi – è stata realizzata la mappa di tutti gli orfanotrofi e definiti gli standard minimi per la loro sopravvivenza. Dei 725 censiti, il governo ne ha chiusi già 26 da settembre». Piccoli passi che possono segnare una svolta. «La sfida imminente adesso è quella di porre fine una volta per sempre alla schiavitù domestica», conclude il rappresentante. Perché altre Wichlaw possano imparare a cantare, a leggere, a sperare.