«È stata mia madre a dirmi: scappa negli Stati Uniti o ammazzeranno anche te, come tuo cugino. Ha tirato fuori del denaro, nascosto sotto una trave di legno, mi ha portato al bus e mi ha salutato con la mano, senza piangere ». Il giorno prima, Josué, 16 anni, si era imbattuto in una cellula della Mara Salvatrucha (Ms), una delle tante gang criminali che controllano buona parte del Centroamerica. Tornava a casa dalla spiaggia di San Vincente, nel Salvador, dove si era recato a pescare tartarughe. «Mi hanno detto: “Scegli: o sei con noi o sei nostro nemico”. Ho risposto che ci avrei pensato. Non volevo entrare nella banda, non mi piace uccidere. Ma non volevo nemmeno morire. Per questo sono fuggito», racconta ad
Avvenire il ragazzino, mentre tormenta con le mani il cappellino nero. Di tanto in tanto, guarda di sbieco gli uomini radunati intorno a un improvvisato tavolo da domino. Ha imparato a giocarci nella casa-rifugio “Hermanos en el Camino” di Ixtepec, dove è approdato dopo otto mesi di peregrinazione per il Messico, come migliaia e migliaia di coetanei. «Ho passato il confine dal Guatemala e sono arrivato a Tapachula, per prendere il treno». Josué è salito sul tetto della Bestia, il convoglio merci impiegato dagli irregolari per raggiungere il Nord, ed è sfuggito alla “migra” – la polizia di frontiera –, due volte, lanciandosi dal treno in movimento. Nel tentativo di aggirare i controlli, ha proseguito dal Chiapas all’Oaxaca a piedi, sulla strada più remota: quella che passa per La Ventosa e la maxi-discarica di Juchitán. Là lo attendevano i criminali. «Mi hanno portato via tutto, anche i pantaloni. Non potevo più proseguire il viaggio». Ad Alfredo, honduregno di 17 anni, è andata peggio: nel salto da La Bestia per eludere gli agenti ha perso il braccio destro. «E ora come posso andare negli Usa? Che lavoro farei? », dice, livido. L’ondata record di baby ir- regolari centroamericani alla frontiera statunitense è finita, ufficialmente, da un anno e mezzo. Lo ribadiscono le autorità. E i media hanno smesso di parlarne. In effetti, i minori soli non arrivano più in massa sulle rive del Rio Bravo, che divide Nord e Sud del Continente americano. La “grande fuga” dei ragazzini dalla violenza record del Triangolo Nord – El Salvador, Honduras e Guatemala –, però, non si è fermata. Non potrebbe: le maras hanno intensificato il reclutamento di minori. Questi ultimi hanno tre scelte: accettare, morire o scappare. Decompagnati, cine di migliaia di adolescenti non accompagnati, tra i 12 e i 17 anni, continuano, dunque, ad attraversare il Messico. Come raccontano le case rifugio per migranti. «L’anno scorso, ne abbiamo accolto almeno 500», afferma fra Tomás González, direttore del centro “Los 72”, di Tenochique, nel Tabasco, una delle porte d’entrata nel Paese dal Centro America. Anche “Hermanos en el Camino” riporta cifre simili. «Ogni mese, passano più o meno quaranta minori soli», dice il direttore, padre Alejandro Solalinde. Man mano che si sale verso Nord, però, il numero di ragazzini centroamericani cala, mentre, per la prima volta, si notano baby migranti messicani, in fuga dalla narco-violenza di Michoacán e Guerrero. La ragione si chiama “Plan Frontera Sur”. Da quando, il 7 luglio 2014, il presidente messicano Enrique Peña Nieto ha dato via al nuovo pacchetto – grazie a un finanziamento di Washington —, i controlli sugli irregolari si sono moltiplicati. Nel solo tratto da Tapachula a Ixtepec si incontrano 21 posti di blocco di polizia e militari. «È in corso una vera e propria “caccia” agli irregolari – afferma padre Solalinde –. Questi ultimi sono, dunque, costretti a inoltrarsi nei sentieri meno battuti, dove diventano facile preda della criminalità, organizzata e comune. Il Plan Frontera ha trasformato il viaggio dei migranti in un incubo». Il piano, però, ha raggiunto l’obiettivo che Città del Messico – e Washington – si erano prefisse: intercettare il maggior numero possibile di “indocumentados”, soprattutto minori, riducendo la pressione sul confine Usa. Nel 2015, il Messico ha catturato e rispedito indietro 107.814 centroamericani, oltre 37mila in più rispetto al vicino settentrionale, in media 11 ogni ora. Di questi – sottolinea Unicef – 18.593 erano minori non ac- rimpatriati al ritmo di 51 al giorno: là rischiano la vita, perché le maras condannano i fuggiaschi a morte. In teoria, molti avrebbero avuto diritto all’asilo. Di fatto, però, solo 57 l’hanno ottenuto nel 2015, secondo Human Right Watch. Perché le autorità non danno loro né tempo né modo di chiederlo. Altre volte, gli stessi baby migranti hanno paura di presentare istanza. Perché, anche se venisse accolta, fino a 18 anni verrebbero rinchiusi in luoghi drammaticamente simili alle prigioni. Per sopperire a tale mancanza e dare una chance ai piccoli centroamericani in fuga, da novembre, l’équipe del rifugio di Ixtepec ha creato “Menores en el Camino”. Situata alla periferia di Oaxaca, la struttura dà vitto, alloggio e, soprattutto, scuola e corsi professionali ai baby migranti in attesa dell’asilo. Carlos, 16enne salvadoregno, ad esempio, sta imparando a fare il panettiere. Brian, honduregno, sfoga nelle lezioni di rap i brutti ricordi delle maras. Mentre Margarita studia inglese nella speranza di diventare segretaria. Per ora, a “Menores en el Camino” c’è una decina di ragazzini. «Si tratta di un progetto pilota, unico nel Paese. Speriamo di crescere», dice padre Alejandro mentre indica Josué. «Lui è il prossimo della lista», aggiunge. Daniel, invece, è determinato ad andare avanti, per raggiungere la Carolina del Nord. «Per la neve…», afferma. «Ho visto un documentario su
Discovery Channel: c’era tanta neve e la gente sorrideva, sotto i fiocchi, con una tazza di caffè caldo. Dove abitavo, a San Pedro Sula, fa sempre caldo e non nevica mai. Ma le persone della tv erano felici, al sicuro. Volevo provare anche io quella sensazione».Non è una battuta del pluripremiato film “La gabbia dorata”, di Diego Quemada Diez, sul dramma dei baby migranti centroamericani in fuga verso l’El Dorado Usa. È il racconto di questo honduregno di 16 anni, seduto nel cortile della Casa del migrante di Ciudad Juárez, nell’estremo nord del Messico, dove è arrivato sfidando i narcos e i controlli. Eppure, quando Quemada Diez volle inserire un dialogo simile nella pellicola, tanti lo accusarono di eccessiva poesia. «Perché non conoscono i migranti. Ho raccolto le loro storie per sette anni – racconta il regista ad
Avvenire –. Sono vere e proprie epopee. E loro, i protagonisti, sono eroi coraggiosi che lottano per la vita, propria e delle loro famiglie. Con una sola arma a disposizione: la poesia».