Caro direttore,
di quando in quando si riapre il dibattito sulla competenza degli italiani in materia religiosa, dunque sul significato della loro asserita religiosità e magari sul ruolo dell’insegnamento scolastico a questo proposito. Due articoli pubblicati sul suo giornale nei mesi scorsi, a firma rispettivamente di Roberto Carnero e di Giorgio De Simone, mi hanno fornito spunti per una riflessione, sviluppata con la collaborazione dei miei alunni, ora accessibile sul sito del liceo in cui insegno. Il titolo, "Patristica di Papà Natale", si ispira a un saggio di Maurizio Ferraris di alcuni anni fa. Carnero ha trovato di interesse le questioni da me sollevate e, pur condividendole solo in parte, mi suggerisce di coinvolgere i lettori di "Avvenire. Ecco dunque di seguito alcune domande di fondo suscitate da quegli articoli.
Se l’insegnamento della religione cattolica è indispensabile per capire Dante, allora per capire Virgilio non dovrebbe essere altrettanto necessario frequentare apposite ore di insegnamento della religione pagana, con programmi svolti da docenti pagani, formatisi in istituti pagani e autorizzati da un gran sacerdote pagano? Come potrebbero allora gli insegnanti di lettere insegnare alla generalità delle classi? E come potrebbero essi stessi essere in grado di capire Dante (o Virgilio) senza quel genere di lezioni religiose?
Perché mai poi quello stesso insegnamento confessionale sarebbe necessario ad affrontare le questioni suscitate dalle scienze naturali, a cominciare da quelle storiche e morali? Che ne è dell’autonomia dell’etica, delle scienze naturali e della loro storia? Chi sostiene che occorre chiedersi come si sarebbero mai potute formare senza la fede le grandi realizzazioni della nostra civiltà, si pone la stessa domanda a proposito degli abissi di umane nequizie prodotti negli ultimi millenni? E applica lo stesso principio, nel bene e nel male, anche alle altre fedi e culture? Magari persino quando, misteriosamente, le realizzazioni paiono nascere proprio dall’esclusione della fede da ambiti non suoi?
Perché invocare persino la pratica e la fede religiose, sostenendo che per comprendere in modo adeguato non basta il solo studio? Forse, semplicemente, perché per essere del tutto d’accordo con gli scrittori cattolici bisogna essere cattolici? Ed esserlo tuttavia già prima di leggerli, per scelte pedagogiche genitoriali, non certo per quanto leggiamo nelle loro opere? Ma, a parte il resto, leggiamo forse i grandi autori per condividerne le opinioni in materia di fede? Questa condivisione è in qualche modo necessaria ad apprezzarli in quanto scrittori? Non si tratterà di un relativismo culturale davvero estremo? Di un requisito troppo inutilmente arduo e settario per le lettere e, soprattutto, di una troppo misera giustificazione per la fede e per la sua inoculazione fin dall’infanzia? D’altra parte le stesse considerazioni non valgono anche per le altre religioni? Per permettere a Virgilio di lasciarmi il segno devo forse convertirmi al paganesimo? Ancora, non è storicamente ridicolo oltre che filosoficamente contraddittorio aggrapparsi a un presunto primato etico del cristianesimo?
Siccome poi si difende tutta un’intera educazione infantile (e poi giovanile, anche scolastica) destinata a sfociare nella fede e a questo orientata, secondo un meccanismo spontaneo che vale per tutte le credenze più o meno religiose, si è allora del tutto disinteressati alla verità? Non basterebbe infatti cambiare luogo o tempo o semplicemente famiglia di applicazione della stessa strategia educativa per imporre ai giovani credenze totalmente diverse fra loro? La presunta utilità della fede è allora più importante della sua eventuale verità? Anzi, a interrogarsi troppo sulla verità, si rischia pericolosamente di perdere la fede?
Ma infine, tutto sommato, che cosa conosce davvero un ragazzo fresco di studi, uno studente medio, della religione maggioritaria? Non cade forse in equivoci grossolani senza che questo susciti in lui (o nei suoi insegnanti) alcun imbarazzo? Credere oggi non vorrà dire tutto sommato solo appartenere per abitudine e affetto a una comunità e accettarne l’autorità soprattutto se si tratta di imporla agli altri, con buona pace del vero e del giusto?
Andrea Atzeni, Varese
I suoi studenti, gentile e caro professor Atzeni, non si annoiano di certo... Ho letto e riletto la sua lettera, ci ho pensato un po’ su e ho deciso di mettere a disposizione della libera riflessione di tutti, lettori e firme di "Avvenire", la serie (appena ridotta) di acute e anche spigolose domande che lei ha confezionato. Penso che sappia che anch’io ho scritto spesso, negli anni scorsi, su questo stesso argomento, sostenendo le buone ragioni dell’insegnamento della religione cattolica nella "scuola di tutti". Ora, qui, mi limito a un paio di annotazioni. Mi colpiscono i dubbi che lei inanella, perché mi sembrano basati su una visione di tale insegnamento come "catechesi", mentre stiamo parlando di un’attività formativa e culturale di segno, e di contenuto, volutamente e programmaticamente diverso. Non è una differenza da poco: il catechismo cattolico si spiega e propone in parrocchia, a scuola (se ben fatta) attraverso i diversi insegnamenti previsti (Irc compresa) ci si immerge nella cultura e nella storia comune di un popolo, che qui in Italia la tradizione cattolica alimenta potentemente. Cristo naturalmente si può incontrare – ed effettivamente si incontra – ovunque, ma questo è un altro discorso. E non esiste percorso "istituzionale" (in Chiesa o a scuola o persino in famiglia) che riesca ad assicurare o, al contrario, a impedire quell’incontro-abbraccio che, comunque, nessuno può imporre e chiunque può agevolare con la propria concreta testimonianza e con la capacità di dar ragione della speranza che lo abita. Cioè con parole e atti che siano d’esempio, cioè attraenti, cioè – direbbe papa Francesco – pieni della gioia del Vangelo. Infine, lei afferma (la forma interrogativa è solo apparente) che nella ricerca della verità «si rischia di perdere la fede». Non è una scoperta: per tanti e certamente per coloro che conoscono e riconoscono il Dio di Gesù Cristo, è la concreta e per così dire strutturale condizione di rischio dell’uomo e della donna credenti. Siamo «figli e non servi». Siamo liberi e responsabili, come in ogni vero rapporto d’amore. Ce lo ricorda anche la storia faticosa e contraddittoria, ma soprattutto luminosa e bellissima che le comunità cattoliche da due millenni continuano a scrivere in questa nostra terra italiana ed europea.