Egregio direttore.
scrivo questa lettera con grande turbamento e profonda indignazione per quanto ho letto sul suo giornale in un commento di Davide Imeneo pubblicato il 13 luglio scorso dal titolo «Chiamiamola massomafia». Mi duole veramente dirlo ma credo che in questa occasione siano stati superati tutti i limiti del buonsenso e della libera opinione. L’articolista nel raccontare l’inchiesta giudiziaria in corso in Calabria e citando alcune dichiarazioni di pentiti avvalora in chi legge e quindi nell’opinione pubblica una tesi, quella della n’drangheta ormai confluita nella Massoneria, anzi «sotto la Massoneria» che è veramente un pugno nello stomaco per tutti quei fratelli che orgogliosamente e nella piena legalità e trasparenza lavorano secondo i nobili principi della Libera Muratoria Universale per migliorare se stessi e l’Umanità non certo intrallazzando con la criminalità organizzata o addirittura facendola confluire direttamente all’interno dell’Istituzione. Simili accostamenti sono totalmente arbitrari ed estremamente preoccupanti per tutti i massoni delle Obbedienze regolari. Totalmente inaccettabile è poi il fatto che venga coniato un termine «massomafia» che marchia in modo inaccettabile, infamante e totalmente falso una Istituzione che con la Mafia non ha nulla da spartire. Le parole sono come macigni e prima di scriverle bisognerebbe usare la massima cautela. Noi liberi muratori del Grande Oriente d’Italia pretendiamo solamente rispetto, una parola che purtroppo nell’odierna società e nel continuo e devastante decadimento dei valori sta scomparendo dal vocabolario dell’umana intelligenza, e non di essere infangati ed offesi per colpe che non abbiamo ed esposti ai pericoli di folli vendicatori. Pertanto, nel respingere in toto quell’aberrante parola – «massomafia» – e nel rimanere amareggiato per l’increscioso passaggio dell’articolo confido che in futuro, nella più ampia libertà di critica e di opinione, la massoneria non venga ancora additata con un neologismo che non merita e che ne lede l’immagine e la sua grande opera per il bene e non il male dell’umanità.
Stefano Bisi, gran maestro del Grande Oriente d’Italia
Palazzo Giustiniani
Capisco il suo punto di vista, gentile dottor Bisi. E so che è espresso con genuina intenzione, visto che ho avuto modo di conoscerla quando io non ero direttore, lei non era ciò che è oggi ed entrambi eravamo giovani cronisti in un giornale diffuso nella viva provincia italiana tra Umbria e Toscana. Ma penso che nel suo ruolo di Gran Maestro del Goi-Palazzo Giustiniani, ovvero della più numerosa comunione massonica italiana (le stime parlano di almeno 22mila iscritti), lei possa e debba dolersi soprattutto del fatto che affiliati alla ’ndrangheta siano o siano stati anche "fratelli" accettati e riconosciuti in logge massoniche (non sono così esperto della materia da dirle di quale "obbedienza"). E penso anche che possa e debba indignarsi per ben altro e cioè per la verifica da parte della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria del collegamento strutturale tra i gruppi malavitosi che gli atti dell’inchiesta "Fata Morgana" (maggio 2016) definiscono la «’ndrangheta militare» e la «’ndrangheta massonica» illustrandone l’interazione a partire dalla fine degli anni 70 del secolo scorso. Parole e concetti che ricorrono decine di volte negli atti e anche in un illuminante video del Ros dei Carabinieri visibile su internet ( https://youtu.be/3EfZSp1kFkI ). E che appena ieri, sabato 16 luglio, abbiamo dovuto rimettere in pagina dando conto di una nuova riuscita operazione antimafia. Si tratta, come sinceramente spero, di personaggi di una «massoneria deviata»? C’è da augurarsi che emerga. E perché questo accada è necessario che lo si dica, lo si denunci: quei «liberi muratori» non vanno solo smentiti, vanno sconfessati. Per questo – e per come la conobbi ritengo che lei se ne renda perfettamente conto – servono dosi serie di chiarezza e di trasparenza, e il coraggio della ramazza. Che non va usata di certo per mettere la polvere (in questo caso da sparo, o di sporchi affari) sotto al tappeto. Serve, insomma, la stessa sana fatica che altre realtà – civili e anche ecclesiali – affrontano a causa dei "tradimenti" e delle "sporcizie" che emergono al loro interno. Anche così si affianca con efficacia la battaglia per la giustizia della magistratura, delle forze dell’ordine, della buona politica e della vera società civile.
E vengo al termine «massomafia», che tanto la inquieta e che lei considera un «neologismo». In verità non una nostra creazione. È una citazione. È infatti il frutto della fulminante intuizione e sintesi di Giovanni D’Urso, urbanista, accademico, insigne e generoso protagonista della lotta alla mafia, fondatore nel 1984 dell’associazione "I Siciliani" per rendere omaggio e continuare l’impegno di Pippo Fava, grande e scomodo cronista e intellettuale assassinato in quello stesso anno dai sicari di "cosa nostra". Mi creda, gentile dottor Bisi, «aberrante» non è il termine «massomafia» riproposto con asciutta lucidità nel commento del nostro editorialista, ma la realtà di comitati d’affari e di intrecci tra logge e ’ndrine (o cosche o clan) che esso descrive. Una realtà criminale che non dubito sia diversa dalla massoneria che lei rivendica con orgoglio di rappresentare, ma che purtroppo esiste e inquina da gran tempo e in diverso modo la vita del nostro Paese. La massomafia c’è, eccome: va riconosciuta, portata allo scoperto e sconfitta. A ognuno, massoni compresi, spetta di fare fino in fondo la propria parte. Senza paura delle parole, a viso aperto.