Caro direttore,alla scontata notizia di questa ennesima assoluzione, molti avranno riso. Riso amaro, naturalmente. Ma se in Italia ormai i giudici assolvono ogni giorno i responsabili di centinaia (presto saranno migliaia) di morti a causa dell’amianto, che cosa volete che siano i “peccatucci” di Silvio Berlusconi? Come diceva un simpatico personaggio del capolavoro di Monicelli “La grande guerra”: «Peccato di Pantalone, pronta assoluzione». E così l’Italia va avanti, anzi indietro, facendo lo slalom tra uno scandalo e l’altro. Finché non arriverà il giorno della catarsi.Fernanda Tancredi, Milano
La definitiva assoluzione di Silvio Berlusconi nel processo per il cosiddetto “caso Ruby”, stabilita nella notte tra il 10 e l’11 marzo dalla Corte di Cassazione, è un evento destinato a lasciare il segno. Le vostre lettere, cari e gentili amici, ne sono la prova. Per opposte ragioni, entrambi ritenete che sia il momento di pensieri conditi da risate. Amare, esasperate, sarcastiche, ma pur sempre risate. Io credo che, in realtà, ci sia ben poco da ridere. E questo comunque la si pensi sulla vicenda e sui suoi esiti giudiziari, dei quali – in uno Stato di diritto come il nostro – c’è solo da prendere atto con rispetto, che non esclude mai la civile libertà di riflessione, di recriminazione e di critica. Fatto sta che, per una volta senza le estreme lungaggini che sono purtroppo tipiche del nostro Paese, la Giustizia è arrivata a concludere che non ci sono rilievi penali nella condotta tenuta dall’allora presidente del Consiglio dei ministri. Che non ha configurato alcun reato la sua telefonata da premier a un funzionario della Questura di Milano per avventurosamente “liberare” una ragazza a torto o a ragione accusata di furto, presentandola per di più come «nipote di Mubarak». E che non era nella consapevolezza dell’accusato Berlusconi la minore età della giovane donna, partecipante alle famose e indecentemente e anche voluttuosamente raccontatissime «cene di Arcore». Non intendo insistere su questo aspetto che ha ammorbato mesi e mesi di narrazione mediatica (e che “Avvenire” ha cercato di sviluppare senza adeguarsi alle “regole del circo”, con l’essenzialità indispensabile per comprendere i fatti). La conferma da parte della Suprema Corte della decisione dei giudici d’appello, che a luglio 2014 avevano capovolto la condanna di primo grado, mi esenta dal soffermarmi ancora su quei dettagli per nulla entusiasmanti. Ma non mi esenta dal tornare su un punto che per anni – anche se qualcuno, da diversi punti di vista, ha fatto e continua a far finta di non aver sentito e capito – è stato pacatamente e solidamente al centro dei commenti di questo giornale. Un punto che ci sta a cuore da cittadini italiani, e che è stato illuminato, in diverse occasioni, dalle parole alte e chiare dei nostri vescovi sul senso sociale, politico e istituzionale di quanto è venuto via via alla luce in quella vicenda, e sul suo rilievo morale. Parole significativamente (e laicamente) ancorate al dovere sancito dall’art. 54 della Costituzione repubblicana di «adempiere con disciplina e onore» a ogni pubblico ufficio e tanto più al massimo ruolo di governo. Certo, oggi, quest’assoluzione dell’ex-Cavaliere fa riflettere sulle modalità con cui è stato imbastito un processo accompagnato da grandi clamori (anche internazionali) e che ha avuto conseguenze serissime. Ma anche solo per il fatto che un simile processo sia stato possibile, cari amici lettori, è evidente che un’assoluzione con le motivazioni sinora conosciute non coincide con un diploma di benemerenza politica e di approvazione morale. L’ho pensato e scritto all’indomani della sentenza d’appello, continuo a pensarlo e torno a scriverlo oggi dopo la parola finale detta dai giudici di Piazza Cavour. Ripeto: senza nessuna voglia di ridere.
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