mercoledì 12 ottobre 2011
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Caro direttore,
le recenti riflessioni del cardinal Bagnasco e il fermento che attraversa tutta l’area cattolica italiana – nelle sue multiformi espressioni ed esperienze – confermano che l’attuale fase di transizione esige e richiede un rinnovato “protagonismo” pubblico dei cattolici. Dall’ambito culturale a quello sociale, da quello economico a quello politico. Nessuno, credo, persegue il disegno di ricostruire una sorta di Democrazia Cristiana. Ma, con altrettanta franchezza, nessuno pensa che l’attuale geografia politica possa più essere considerata definitiva. Ed è proprio su questo versante che il dibattito è aperto e che, soprattutto, interpella tutti i cattolici che coltivano una vocazione politica. Del resto, è noto che la presenza e la “qualità” della proposta politica dei cattolici in questi ultimi anni si è progressivamente affievolita. Nessuno, credo, pensa a ricostruire movimenti politici identitari né a riaggregare tutti i cattolici nel medesimo soggetto politico. Ma è indubbio che i valori, le istanze, lo stesso patrimonio culturale del cattolicesimo politico italiano debbano ritornare protagonisti nello scenario pubblico del Paese. E questo non per una impuntatura “confessionale” o per ritagliarsi spazi di potere. In gioco, infatti, c’è la necessità di non sacrificare sui banconi alchemici delle formule politiche e delle alleanze un universo valoriale che viene spesso evocato ma scarsamente declinato nella dialettica pubblica quotidiana. E la fine del fattore di blocco berlusconiano spinge la politica italiana a riarticolarsi liberando energie che sino a oggi sono state compresse in una logica rigidamente bipolare e muscolare. Quando si chiude una fase politica e se ne apre un’altra, è persino scontato rilevare che le vecchie appartenenze sono destinate a entrare in discussione. E questo, nella situazione italiana, coinvolge direttamente il centrodestra ma intacca anche l’opposizione di centrosinistra. Del resto, se il centrodestra è destinato a mutare in profondità la sua natura, il suo profilo e la sua composizione, non è lontanamente pensabile che sul versante opposto si profili la riproposizione dell’«alternativa di sinistra». La stessa discussione sulla riforma della legge elettorale non è indifferente a questa riflessione. È inutile aggirare l’ostacolo o fingere di non vederlo. Chi, nel Pd, ad esempio, ripropone il “Mattarellum”, deve rispondere a una domanda politica decisiva: sarebbe credibile e utile, oggi, tornare a proporre una coalizione che, pur di vincere le elezioni, somma tutte le esperienze della sinistra italiana, compresa quella radicale, estremista e massimalista? E si può pensare che attraverso questo “fronte progressista” possa passare anche una rinnovata presenza politica dei cattolici italiani? È sufficiente porsi queste semplici domande per arrivare a una conclusione altrettanto semplice: no. Penso che il severo e impegnativo richiamo del presidente della Cei sia destinato a far riflettere in profondità e in molte forze politiche. E, soprattutto, ritengo che sia destinato a suscitare un serio dibattito nella vasta area del cattolicesimo impegnato, che si sente ormai pienamente interpellata a dare risposte serie e convincenti alla richiesta di una rinnovata presenza anche nell’agone politico. Per quanto mi riguarda, credo che coloro che si rifanno alla tradizione del cattolicesimo democratico non possano assistere passivamente, cioè in modo autolesionistico, a un dibattito di tale portata. Per tutti noi è necessario affrontarlo con la consapevolezza che la stagione della marginalità è finita.
Giorgio Merlo, Deputato del Pd
 
Credo anch’io, caro onorevole Merlo, che una stagione sia finita, anche se i suoi strascichi non sono (e non saranno) brevi né banali. Le debolezze estreme dei principali pilastri del quadro politico “ufficiale” ne sono la riprova. Così come il fatto che nel rapporto con la società, a livello di credibilità e di capacità effettiva di proposta (e mobilitazione) stanno un po’ meglio solo coloro che in questo momento sono fuori dal “gioco a due” tipico della cosiddetta Seconda Repubblica: cioè quello che viene chiamato Terzo Polo, la vecchia-nuova sinistra di Sel, soggetti seccamente alternativi (e oggettivamente antipolitici) come i “grillini” e, ultime ma non ultime, quelle forze associative e di movimento (soprattutto cattoliche, ma non solo) che non hanno perso la capacità di “fare” e di “fare rete” per e nella nostra società. Per il resto, come s’è visto anche ieri, il governo – con il premier in chiara difficoltà e i due partiti cardine in fibrillazione – riesce a inciampare clamorosamente persino al cospetto di un’opposizione tutt’altro che coesa e determinata. Con queste premesse, il minimo che si possa fare è annotare che la transizione che si è aperta è decisamente complessa. Complessa tanto quanto le sfide alle quali non si è saputo dare risposta compiuta nel tempo della cosiddetta Seconda Repubblica, tanto quanto le incessanti prove alle quali il Sistema Italia è sottoposto da quel capovolgimento di riferimenti, rendite, ambizioni ed equilibri che chiamiamo “globalizzazione”. Nei quasi diciotto anni che stanno alle nostre spalle, i cattolici italiani – parlo di quelli più impegnati e consapevoli – non sono stati ovviamente a guardare. Hanno elaborato e proposto salde visioni culturali fondate sui valori cardine del diritto naturale e dell’umanesimo cristiano. Hanno ingaggiato (qualche volta vincendo, altre pareggiando) importanti battaglie sui fronti decisivi della vita e della famiglia. Hanno continuato a sviluppare un’azione efficace sul piano sociale mettendo a disposizione della comunità nazionale, nelle sue diverse articolazioni, capacità e iniziative. Hanno sperimentato – come mai prima – una pluralità di opzioni partitiche e diverse forme di “presenza” alternativa. Hanno incontrato diversi compagni di strada, non tutti schietti ma parecchi, come loro, attenti e generosi. Troppo spesso si sono, però, ritrovati a mangiare un pane partitico e politico che sapeva “di sale” (per cattiva sostanza programmatica, per aspra forma, per prezzo istituzionale, per qualità morale). A un pane così amaro tanti elettori cattolici (un «popolo esigente», come scrissi a commento della Settimana Sociale che culminò, giusto un anno a fa, nei giorni di riflessione ed elaborazione di Reggio Calabria) hanno già cominciato a dire “no” e tanti altri – anche l’osservatorio di Avvenire aiuta a capirlo – si preparano a farlo se non si cambia finalmente registro e passo. A un pane tanto amaro i cattolici che sedevano in Parlamento e nei governi di diverso segno che si sono succeduti hanno finito per accompagnare non poche volte, per giochi di equilibrio o per inadeguatezza, pietanze scipite. Non è stato sempre così, non è sempre così. Ma il bilancio è quel che è. Lei, caro onorevole, guardando alla sua casa politica la chiama «marginalità», io in qualche occasione e con grande tristezza l’ho definita «insignificanza». In ogni caso, queste espressioni vogliono dire che, da cattolici, ci si è ritrovati in troppi frangenti a “esserci, ma senza esserci davvero”. A centrosinistra più che al centro e a centrodestra. E questo è ciò che qualcuno vorrebbe ancora, ma tanti – e io con loro – sperano non debba più accadere. Liberare e usare a dovere i canali di comunicazione e di alimentazione che possono tornare a unire la società tutta e, in particolare, le vitali realtà cattoliche con la politica è perciò un primo importantissimo obiettivo. Come il Papa ci ha ricordato anche domenica scorsa, i cattolici sanno che cosa vuol dire “fare politica” senza limitare azioni e orizzonti a piccoli interessi particolari. Passa anche da qui, anzi passa potentemente da qui, la risposta alle incalzanti tentazioni dell’antipolitica e del fare a meno della politica. Chi è “fuori” dal Palazzo lo ha piuttosto chiaro, chi è “dentro” farebbe bene a rendersene conto e ad accettare seriamente la sfida. Non c’è da inseguire nostalgie, c’è da sgombrare la via al futuro.
Marco Tarquinio
 
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