Caro direttore, la prima parzialissima detraibilità della retta sostenuta dalla famiglie per mandare il figlio in una scuola paritaria è un passo nella direzione dell’applicazione della legge n° 62 del 2000 che afferma che «il sistema nazionale di istruzione è formato dalle scuole statali e da quelle paritarie». Se la legge riconosce il servizio delle scuole paritarie come costitutivo del sistema di educazione e di istruzione complessivi del Paese, non si vede perché lo Stato non debba farlo anche in termini finanziari, così come lo sta facendo, per esempio, nel campo della Sanità, non meno importante. Le scuole paritarie sono spesso suppletive allo Stato che manca, come accade per le scuole dell’infanzia nel Veneto (che servono l’80% dei bambini) e in altri casi integrative del servizio statale, come accade per la scuola secondaria di I e di II grado. Consentire la detrazione della retta è anche un grande passo nel rispetto della dignità dei genitori, che possono già detrarre il corso di nuoto e la tachipirina per il proprio figlio, ma non le spese sostenute per educarlo e formarlo in una scuola che risponda meglio alla loro visione del mondo. Del resto l’Unione Europea si è espressa più di una volta (a partire dalla risoluzione del Parlamento Europeo del 7 luglio 1983) in questa direzione, invitando i Paesi membri a creare le condizioni perché venga effettivamente rispettata e garantita la libertà di scelta dei genitori. Nonostante i non pochi che ancora oggi danno un’interpretazione ideologica del comma tre dell’art.33 della Costituzione – il famoso «senza oneri per lo Stato» – che in realtà non esclude affatto il potere discrezionale dello Stato di garantire «nell’interesse delle esigenze universalistiche dell’istruzione» aiuti alle scuole paritarie non statali. Quindi, se finalmente il Governo e il Parlamento faranno qualcosa per impedire che le scuole paritarie chiudano, non sarà nulla di anticostituzionale. Se poi farà qualcosa per consentire alle famiglie meno abbienti di accedere a una scelta alternativa al monopolio statale, farà un grandissimo servizio alla libertà di tutti.
Umberto Fasol preside Istituto paritario 'Alle Stimate' di Verona Caro direttore, in questo governo ci sono persone veramente e seriamente sensibili alla libertà di educazione, ma non riesco a capire perché si dica che le imminenti (possibili) detrazioni fiscali per chi iscrive i figli alle scuole libere non statali sarebbero «una svolta culturale per l’Italia». Dopo aver illuso milioni di famiglie, e aver fatto passare nell’opinione pubblica il miraggio che la parità scolastica verrà garantita, anche sul piano finanziario, grazie alle detrazioni, alla prova dei fatti una famiglia fa quattro conti e scopre che, se (e sottolineo il se…) andrà infine in porto: a) la detrazione sarà solo fino alle medie inferiori; b) la detrazione sarà nel limite del 19% della retta; c) il 19% sarà calcolato su una retta massima di 400 euro annui. E così una famiglia che decida liberamente la scuola dei propri figli continuerà a pagare – tramite le tasse – la scuola statale; continuerà a spendere, per adempiere al suo compito educativo con 'libertà', da 3.500 a 7.000 euro all’anno e di questa retta detrarrà (forse) ben 76 euro all’anno; e, beffa delle beffe, gli avversari della libertà educativa andranno in piazza denunciando questi favoritismi alle «scuole private», anzi alle «scuole dei preti». Bella soddisfazione… Con amarezza le auguro buon lavoro
Giovanni De Marchi presidente Famiglia e Scuola (Faes) di Milano È lunga, cari amici, la strada per riconoscere una piena libertà educativa alle famiglie italiane. Ora, a quanto pare, siamo arrivati a un primo passo effettivo, a settant’anni dalla nascita della Repubblica democratica e a quindici dal varo della legge Berlinguer che, nel 2000, nel passaggio tra due secoli, diede salda cornice (e nulla più) a questo diritto in uno Stato che non finanzia (per divieto costituzionale) l’«istituzione» di scuole da parte di soggetti privati, ma che (in forza della stessa Costituzione) è del tutto libero di valutare come garantire un trattamento «equipollente» a tutti gli studenti, sostenendo un sistema nazionale di istruzione che oggi è costituito dalle scuole statali e dalle scuole non statali paritarie, assoggettate alla stessa legge e impegnate a fornire gli stessi standard formativi modulati secondo ben regolati princìpi di autonomia. Un modello, sulla carta, all’europea. Che consente di dare un contenuto «non statale» a un insostituibile «servizio pubblico», di arricchirlo e di condurlo in modo più efficace. Che spinge gli esperti a ipotizzare soluzioni di diverso tipo, come quella proposta dal professor Andrea Ichino che invoca la «gestione privata» di scuole statali italiane sulla scorta dell’assai felice esperienza delle "charter school" statunitensi. Credo che questo dibattito sia un altro segno «promettente» (l’espressione è del cardinale Bagnasco) in una fase ancora complessa e complicata. Anch’io, però, sono convinto che lo strumento migliore per sviluppare un sano pluralismo formativo, in un quadro saldamente garantito dalla legge della Repubblica, sia quello che dà direttamente potere alla famiglia, che consente cioè ai primi responsabili dell’educazione dei bambini e dei giovani – i genitori, ovvero la madre e il padre – di stipulare l’«alleanza» che ritengono migliore con la scuola che preferiscono. E sono altrettanto convinto, per far sì che l’affermazione non resti una pura dichiarazione retorica, della assoluta necessità di mettere tutte le famiglie, più o meno abbienti, su un piano di autentica parità nella possibilità di scegliere. Come? Per esempio, attraverso un sistema di detrazioni fiscali integrato dal riconoscimento di un "assegno" ad hoc a favore di chi non ha abbastanza capienza reddituale. Oggi invece, se l’impostazione del testo normativo predisposto dal ministro Stefania Giannini e varato dal Governo di Matteo Renzi verrà confermata dal Parlamento, si arriverà a una detrazione piccola piccola, manifestamente inadeguata per servire la libertà dei meno ricchi, che resta perciò affidata alla fatica (spesso impossibile) di tante scuole paritarie che cercano di andare incontro a chi ha meno mezzi o più figli. Sta qui, vedo, la radice dell’amarezza espressa dal dottor De Marchi. Ma la speranza a cui dà voce il professor Fasol merita di essere condivisa e ripetuta. Questa è la strada giusta per fronteggiare la cecità di tutti coloro che continuano a inveire ideologicamente contro la «scuola privata», e si dimostrano incapaci di comprendere che «pubblico» non è affatto sinonimo di «statale» e che la parità scolastica è un bene per tutti.