martedì 2 dicembre 2014
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​Immaginiamo che la Germania smetta di fare la Germania. Che nella zona euro, cioè, i "falchi del rigore" si arrendano e accettino di somministrare all’Unione monetaria le cure anticrisi che in questi anni hanno sempre osteggiato. E che a quel punto, finalmente libera dalle briglie dell’austerità, l’eurozona si lanci al galoppo in tutte quelle avventure economico-monetarie che da decine di mesi le sono negate: grandi piani di spesa pubblica per rianimare l’economia, deficit nei conti nazionali ben superiori al 3% del prodotto interno lordo, una banca centrale che stampa moneta per comprare debito pubblico e privato. Potrebbe funzionare, e la zona euro magari troverebbe una ripresa come quella degli Stati Uniti, non entusiamante ma almeno capace di ricostruire i posti di lavoro persi in questi anni. Però potrebbe anche non funzionare, e qui il rischio sarebbe quello di fare come il Giappone, che spende soldi pubblici, stampa yen e prova anche a fare le riforme, ma alla fine è sempre più in crisi. Se in Europa Mario Draghi si è limitato a promettere che la Banca centrale europea è pronta a «qualsiasi cosa serva» per salvare l’euro, in Giappone il primo ministro Shinzo Abe e il governatore della Banca centrale Haruhiko Kuroda hanno già fatto di tutto per riportare la crescita in un’economia che ha messo in pausa il Pil ormai venticinque anni fa, quando lo scoppio della baburu keiki, la bolla speculativa nipponica, ha annientato la propensione all’investimento delle imprese e la voglia di consumi delle famiglie. L’Abenomics, come è stata soprannominata in occidente la strategia nipponica, è fatta di tre «frecce» (perché, secondo la leggenda, il vassallo Mori Motonari, per invitare i tre figli a stare sempre uniti, insegnò loro che «una freccia sola può essere spezzata, ma tre legate assieme no»).
La prima freccia è la freccia keynesiana: spesa pubblica per spingere la ripresa. A gennaio di un anno fa Abe ha annunciato investimenti pubblici per 10.300 miliardi di yen (90 miliardi di euro, al cambio di allora, il 2% del Pil): una montagna di soldi destinata a ricostruire le aeree danneggiate dal terremoto e lo tsunami del 2011, promuovere la ricerca e l’innovazione, nuovi cantieri pubblici e un welfare più generoso con gli anziani e le donne. La seconda è la freccia monetaria. Pochi mesi dopo il suo ritorno al potere, Abe ha sostituito il governatore della Banca del Giappone per affidare la guida a Kuroda, tra i pochi che sarebbero stati disposti a una politica monetaria che è limitante definire ultra-espansiva. Il piano di Kuroda, avviato ad aprile dell’anno passato, ha l’obiettivo alzare l’inflazione al 2% e prevede di raddoppiare la base monetaria – la quantità di denaro in circolazione e nei depositi delle banche – in meno di due anni. La Banca del Giappone stampa yen a ritmi forsennati per comprare, ogni anno, 50mila miliardi di yen di titoli di Stato nipponici (con scadenze fino a 40 anni), mille miliardi di yen di quote di fondi di Borsa e 30 miliardi di quote di fondi immobiliari. La terza freccia è quella delle riforme. Abe ha promesso un’enorme quantità di liberalizzazioni e semplificazioni, soprattutto negli ambiti del lavoro, dell’energia e della sanità, e norme pensate per attrarre talenti da tutto il mondo, rinnovare il panorama industriale e aumentare la partecipazione delle donne al mondo del lavoro. La freccia delle riforme, però, è quella che a un anno e mezzo dal primo annuncio Abe ha ancora tenuto ben salda nella faretra...
Il problema dell’Abenomics, e dei suoi tifosi europei, è che non sta funzionando per niente. Non lo dice solo Moody’s, che ieri ha tagliato il rating di Tokyo, da A1 ad Aa3, motivandolo con le sue perplessità sulle strategie economiche di Abe. Lo dicono i dati. Il Giappone è appena tornato in recessione. A metà novembre il governo ha comunicato che il Pil nel terzo trimestre 2014 è calato dell’1,6% su base annua, un dato clamorosamente distante dal +2% che si aspettavano gli analisti. Una "decrescita infelice" che viene dopo il -7,3% del secondo trimestre, il primo calo dopo che, ad aprile, è scattato l’aumento della tassa sui consumi (l’equivalente della nostra Iva) dal 5% all’8%. Quell’aumento spiega il crollo del Pil, così come la sua incredibile crescita nel primo trimestre (+6,7%, dato che i giapponesi hanno anticipato gli acquisti prima che i prezzi aumentassero) e pure il ritorno dell’inflazione che, dopo l’aumento della tassa, è schizzata sopra al 3%, ma solo per effetto dei 3 punti di aumento dell’Iva. Di fronte al fallimento Abe ha reagito annunciando lo scioglimento anticipato della Camera bassa e nuove elezioni per il 14 di dicembre: non ha esitato a dire che il voto sarà un referendum sull’Abenomics, chiede ai giapponesi di dargli il mandato di rimandare il successivo aumento dell’Iva dall’8 al 10%, oggi previsto per ottobre 2015, all’aprile del 2017. Mentre Kuroda un paio di settimane prima che i dati certificassero il ritorno del paese in recessione aveva soprendentemente esteso il programma di espansione della base monetaria da 60-70mila a 80mila miliardi di yen all’anno.
L’avventura monetaria continua, perché niente finora è riuscito a tirare fuori il Giappone dalla sua crisi più che ventennale: non aumentare la spesa fino a chiudere cinque bilanci consecutivi con deficit superiori all’8%, non un debito pubblico arrivato 227% del Pil, nemmeno la svalutazione dello yen, che nel cambio con il dollaro ha perso il 20% in un anno e mezzo. Quindi nemmeno la cura radicale e costosa di Abe ha convinto i giapponesi a tornare a spendere. E qui sta il problema del Giappone, un problema di consumi interni che mancano, redditi che non salgono e risparmi che si azzerano. La cosiddetta "domanda interna" non riesce a ripartire. Càpita, nei paesi che invecchiano, e infatti il Giappone è tra i paesi più vecchi del pianeta. Ha una popolazione con un’età mediana di 44,6 anni, seconda per anzianità mondiale solo al principato di Monaco, e un tasso di natalità di 8,07 bambini ogni mille persone (qui lo superano solo Monaco e la sperduta Saint Pierre e Miquelon). Solo nel 2013 il paese ha perso 244mila abitanti. Il piano di Abe, ha scritto William White, ex consigliere della Banca dei Regolamenti Internazionali, sul Financial Times non è coraggioso, ma pazzo. E questo, prima di tutto, perché «la recente bassa crescita del Giappone è largamente guidata da fattori demografici».Non ci sono piani di opere pubbliche o di espansione monetaria capaci di creare una crescita economica autentica e duratura in un paese che invecchia. Indebitarsi sempre più per "lanciare denaro dagli elicotteri" – secondo la celebre immagine di Milton Friedman – serve a poco, se le banconote piovono su un popolo di anziani. L’economia di un paese senza figli e senza giovani non può che trascinarsi stanca verso la quiete della pensione. È questa la brutta lezione che Tokyo sta dando al mondo, e ci converrà studiarla bene mentre in Europa aspettiamo più o meno fiduciosi i miliardi del piano di Juncker e gli acquisti di titoli di Stato promessi da Draghi. Nella classifica dei paesi più anziani del mondo per età mediana, dietro Principato di Monaco e Giappone c’è la Germania, cuore economico della zona euro. Al quarto posto c’è la vecchia Italia.
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