Trentatré giorni di pontificato hanno consegnato il suo nome agli annali della storia, ma la parabola umana e spirituale di Albino Luciani, sbocciata nel 1912, attendeva da tempo una ricostruzione completa, assente sia nei volumi agiografici del «papa del sorriso» sia nei
pamphlet dalle tinte di giallo che ne hanno romanzato la morte. Così, a oltre trent’anni dall’elezione e a un secolo dalla nascita, si prova a seguire le orme del figlio di Giovanni Luciani e Bortola Tancon da Forno di Canale, terra di emigranti, sino al «labirinto di Cnosso», come egli stesso – appena eletto papa, in una lettera al gesuita Bartolomeo Sorge – definì il Vaticano. Vanno recuperati il lungo periodo in seminario («La mia casa, la mia famiglia»): come studente, prima nel Ginnasio di Feltre, poi in quel Gregoriano, a Belluno, dove, ordinato presbitero e consumata una breve esperienza come cappellano ad Agordo («L’apostolato spicciolo che mi piaceva tanto»), don Albino resta dieci anni come docente e zelante vicerettore. Poi, dopo il secondo conflitto mondiale (con la zona del Bellunese sotto l’occupazione nazista) e dopo la Liberazione (con l’impegno delle formazioni partigiane assistite anche dalla Chiesa locale), eccolo efficiente provicario e vicario generale tra i vescovi Girolamo Bortignon e Gioacchino Muccin. Quindi, per volontà di Giovanni XXIII, alla fine del 1958, l’episcopato e quel motto coerente che sintetizzerà la sua persona:
humilitas, tradotto con altri leitmotiv («Io sono la pura e povera polvere»; oppure: «Alcuni vescovi somigliano ad aquile, che planano con documenti magistrali ad alto livello; io appartengo alla categoria dei poveri scriccioli che nell’ultimo ramo dell’albero ecclesiale squittiscono»). Sono questi a Vittorio Veneto 11 anni dove emergono come motivi conduttori una particolare sollecitudine per contrastare la secolarizzazione, ma anche l’ansia per il mondo del lavoro alle prese con emergenze occupazionali (una costante di tutta la sua vita); dove risaltano l’accuratezza nella formazione del clero, l’impegno nella catechesi e nella missionarietà (testimoniato anche dal viaggio in Burundi nel ’66).E sono anche anni costellati da un’evoluzione delle scelte politiche, con parte dell’elettorato di area cattolica che guarda a sinistra e pronunciamenti del pastore che giudicano «danno spirituale non piccolo che i cattolici portino acque alla Base», cioè alla corrente aperturista della Democrazia cristiana. Anni, ancora, nei quali Luciani tiene testa a un crack finanziario che coinvolge la sua diocesi, assumendosi ogni responsabilità per l’operato di alcuni sacerdoti; oppure anni in cui difende la sua autorità episcopale con grande fermezza provocando il cosiddetto «scisma di Montaner» (una piccola parrocchia che pretendeva di sostituirsi al vescovo nella scelta di un nuovo parroco). Ma sono, prima di tutto, gli anni di quel Concilio Vaticano II («partita straordinaria»), destinati a incidere non solo sullo stile del governo episcopale, ma anche sulla stessa persona di Luciani. Obbligato – dal contatto con i vescovi e i teologi, dalle discussioni dentro e fuori l’aula, da nuove letture – a percepire i limiti della sua formazione teologica, il padre conciliare Luciani intraprende una sorta di nuova "scuola" («Il Concilio mi ha obbligato a farmi ancora studente e a convertirmi anche mentalmente»). E proprio monsignor Albino sarà fra i non molti presuli italiani – quasi forgiati
ex novo – pronti a dare la loro approvazione in Concilio sia alla libertà religiosa sia alla dottrina della collegialità episcopale. Ma si ritroverà anche il Luciani «ricercatore», propenso a ipotizzare un’evoluzione della dottrina cattolica sulla contraccezione, e che comunque accetta senza discutere l’
Humanae vitae pur scrivendo ai suoi diocesani: «Mi auguravo nel mio intimo che le gravissime difficoltà esistenti potessero venire superate e che la risposta del Maestro che parla con speciali carismi e in nome del Signore, potesse coincidere, almeno in parte, con le speranze concepite da molte coppie». E molti scopriranno per la prima volta il vescovo che si interroga o dice la sua su tanti temi disparati.Come le unioni di fatto («Tutelata una volta la famiglia legittima e fatto ad essa un posto d’onore, non sarà possibile riconoscere con tutte le cautele del caso qualche "effetto civile" alle "unioni di fatto"?»). O la costruzione delle moschee: («Ci sono 4000 musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea. Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare»). Poi il balzo: da Vittorio Veneto a Venezia. Nel 1970 è designato patriarca per volere di Paolo VI che lo stima e conta sulle sue forze, nonostante ci sia chi lo giudichi «debole di salute». Stagioni per Luciani costellate di motivi di gaudio spirituale, ma altresì di tante incomprensioni, attriti, tensioni... sfociate anche innanzi agli abusi di quanti rischiavano di far diventare il Concilio – sono parole sue – «un’arma per disobbedire, un pretesto per legittimare tutte le "stramberie" che passano per la testa». Non appare sbagliata l’immagine del pastore duro con i movimenti del dissenso e le declinazioni troppo larghe del concetto di pluralismo. Ma Luciani è altrettanto fermo con i gruppuscoli uniti da nostalgie preconciliari (impedendo loro «a qualsiasi titolo la celebrazione della messa
more antiquo»). Incassatore formidabile (anche quando alcuni suoi sacerdoti s’erano spinti a chiederne la rimozione da Venezia), uomo di continue letture e approfondimenti (una passione maturata nell’adolescenza, quando aveva preparato una miriade di schede per i volumi della biblioteca parrocchiale), sempre pronto a impugnare la penna per questo o quell’articolo, ma anche uomo di intensa spiritualità. E Paolo VI, che secondo la testimonianza di Vittore Branca disse di lui: «È uno dei teologi più lucidi e una delle anime più sante che conosca», lo premiò con la nomina a padre sinodale, poi alla vicepresidenza della Cei. Non solo: quando visita Venezia, nel ’72, al termine della messa in piazza San Marco,
coram populo, innanzi a ventimila persone, il pontefice si toglie la stola e la mette sulle spalle di Luciani facendolo arrossire per l’imbarazzo: se non un presagio, l’affermazione di un legame profondo che l’anno dopo ottiene anche il sigillo della porpora. Tutto sino all’
année charnière del ’78.Un papa che fu il primo a chiedere di poter parlare alla folla al primo affacciarsi dalla loggia di San Pietro (impedito dall’allora maestro delle cerimonie Virgilio Noè); il primo ad ammettere persino la paura arrivata al momento dell’elezione. «A volte domando al Signore che mi porti con sé» aveva confidato una volta al vescovo di Treviso Antonio Mistrorigo, come pure al segretario don Diego Lorenzi. Il cuore di Giovanni Paolo I cessò di battere, mentre era solo, la notte del 28 settembre, nell’appartamento papale. Pochi giorni prima il settimanale scandalistico
Op di Mino Pecorelli strillava con un titolo inquietante («Santità come sta?») un articolo che si apriva così: «Giovanni Paolo I non gode di ottima salute»... E così Giovanni Paolo I è finito per diventare il protagonista di un giallo o di un
noir che non c’è e che ha visto tutti i tentativi per risolverlo occultare la portata di un itinerario umano e spirituale di grande interesse. Rimangono altre domande per ora senza risposta: che cosa c’è di vero in quel programma di pontificato che Giovanni Paolo I avrebbe manifestato al segretario di Stato Villot? Che cosa c’è di vero nelle confidenze divulgate dal teologo veneziano Germano Pattaro (su posizioni lontane dal Luciani patriarca, ma che dal Luciani papa fu chiamato per averne consigli)? Tutti da provare i progetti attribuitigli circa tre encicliche – sull’unità della Chiesa, sulla collegialità episcopale, sulla donna nella società e nella vita ecclesiale – legate ad attese intrise di spirito conciliare.