Quasi quotidianamente una nuova statistica ci ricorda che le diseguaglianze sociali stanno crescendo, e che, anno dopo anno, il fossato fra ricchi e poveri si fa sempre più profondo. Anche sull’onda della crisi che avvolge l’Europa il nodo dell’eguaglianza è tornato così al centro di un dibattito non solo politico, e sugli scaffali delle librerie sono ormai numerosi i saggi dedicati al tema. In questa discussione si inserisce ora anche
La società dell’uguaglianza di Pierre Rosanvallon (Castelvecchi, pp. 380, euro 25.00).Con il nuovo saggio l’intellettuale francese completa una trilogia dedicata ai problemi dei sistemi politici contemporanei, il cui esito più noto è senza dubbio
Controdemocrazia (anch’esso pubblicato da Castelvecchi). Ma torna anche su un tema che aveva già considerato in passato. Il suo itinerario teorico cominciò infatti da una disillusione politica, nel momento in cui, al principio degli anni Ottanta, pose fine al proprio impegno politico nell’ala riformista del partito socialista. La sua convinzione era allora che fosse necessario superare ciò che in Francia viene definito come lo «Stato-provvidenza», e cioè una logica di intervento puramente distributiva, senza però perdere di vista l’obiettivo dell’uguaglianza. A circa trent’anni di distanza oggi Rosanvallon torna dunque a riesaminare lo stesso nodo, anche se il panorama è nel frattempo completamente mutato. L’intellettuale riconosce infatti nella storia recente i contorni di una cesura nel modo di concepire l’ideale democratico, che sintetizza con la formula di «paradosso di Bossuet»: un paradosso, per cui gli uomini tendono a deplorare in generale ciò cui acconsentono in particolare. In altre parole, oggi si tende ad accettare la realtà della disuguaglianza, benché una simile condizione venga percepita come ingiusta. E proprio il divorzio fra il piano astratto delle aspirazioni e il piano concreto delle condizioni individuali alimenta ulteriormente il «malessere democratico».Più che sulla realtà delle disuguaglianze contemporanee, Rosanvallon si concentra però sull’immaginario dell’uguaglianza. E, in questo senso, anche il nuovo episodio della sua riflessione si inserisce nel quadro di una storia del “politico”: una storia concentrata sui modi in cui una società si percepisce e si rappresenta come un “noi”, come una comunità di cittadini, come un popolo unitario, seppur talvolta lacerato da discordie interne. Proprio per questo, le tappe di ascesa della società dell’uguaglianza sono scandite – più che da processi materiali – dai modi in cui l’uguaglianza è rappresentata e in cui viene a nutrire l’ideale democratico. In particolare, a partire dalla Rivoluzione francese l’uguaglianza risulta concepita come similarità, indipendenza e cittadinanza. E in questo modo il progetto dell’uguaglianza si afferma «con le sembianze di un mondo di simili, di una società di individui autonomi e di una comunità di cittadini». Oggi quell’immaginario va almeno in parte rivisto, e Rosanvallon sostiene in particolare che la società degli uguali debba essere ripensata in termini di singolarità, di reciprocità e di “comunalità”. Rosanvallon punta così l’attenzione sugli effetti perversi di un’uguaglianza intesa come distribuzione e non come relazione. Ma cerca anche di mettere in guardia dal processo di “denazionalizzazione delle democrazie”: un processo che spinge i ceti più abbienti verso un atteggiamento di “separatismo sociale” e di progressiva chiusura. Non si tratta soltanto della protesta fiscale che mette in discussione il principio dell’imposta progressiva.Per Rosanvallon prende forma piuttosto la tentazione di una vera e propria “secessione” da parte delle élite. Un processo che inevitabilmente mette in discussione le basi stesse del “mondo comune”. Al termine del volume, tornando a vestire i panni del politico più che quelli dello storico, Rosanvallon delinea un sintetico programma per “rinazionalizzare” le democrazie occidentali, e cioè per rafforzarne il senso di coesione comune. E forse il punto più debole del volume rimane proprio questo. Non solo perché risulta segnato dal dibatto politico francese. Ma anche perché l’idea di una “rinazionalizzazione” finisce col suggerire immagini sinistre di chiusura nazionalista e di xenofobia. Immagini che peraltro, nella crisi che sta attraversando il Vecchio continente, non appaiono più consegnate solo a un lontano passato.