Dževad Karahasan, in tour in questi giorni in alcune città italiane per la presentazione dell’antologia
Sarajevo il libro dell’assedio, è oggi a Milano allo Spazio Oberdan di via Vittorio veneto, 2, dalle ore 17.30. Insieme a lui Claudio Martino, Arnoldo Mosca Mondadori, Valentina Parisi. Karahasan, asieme a Abdulah Sidran, Izet Sarajlic, Tvrtko Kulenovic, Marko Vešovic - gli scrittori e poeti "del ghetto" compresi nel libro oggi presentato e discusso - rappresentano il gruppo di intellettuali più attivo nella città assediata. In Italia Karahasan è conosciuto per
Sarajevo centro del mondo (Il Saggiatore, 1994), libro sull’assedio della città, e
Il divano orientale (Il Saggiatore 1997).
Lei è originario della Erzegovina, di Duvno, un’enclave musulmana.«Nella mia infanzia, a Duvno abitava una maggioranza di cattolici, il 70-75% degli abitanti, con un 15-16% di musulmani, il resto ortodossi. Il nostro è un Paese misto e si chiama propriamente Bosnia e Erzegovina. L’Erzegovina ha un clima, una vegetazione e una mentalità mediterranee. La Bosnia un clima, una vegetazione e una mentalità continentale. Un unico Paese con tratti misti. Di me scherzando dico: sono stupido come i bosniaci e furbo come gli erzegovesi».
Lei sceglie Sarajevo per i suoi studi…«In Jugoslavia esistevano due città che mi interessavano particolarmente, Sarajevo e Fiume. Sarajevo: una città in cui era d’obbligo imparare a convivere con le diverse culture e religioni, e anche per il particolare humour dei suoi abitanti. Fiume mi attirava perché è un porto. Il porto apre la città verso l’esterno. Il porto è l’uscita. Fiume però non aveva l’università».
Lei è docente di drammaturgia sia a Sarajevo che a Graz e adesso anche a Berlino. Che rapporto c’è tra insegnare teatro e i suoi libri?«La drammaturgia è la mia passione, come la scrittura. Sono una persona asociale, mi piace stare da solo, passo molto tempo zitto. Andare a teatro, lavorare in teatro mi riporta alla gente. Solo nel teatro capisci quanto gli altri sono importanti. Come narratore scrivo romanzi e racconti dove non sono io il protagonista. Nei miei romanzi, i protagonisti agiscono da soli, hanno le loro voci. Il mio sogno è scrivere un romanzo che appaia scritto da se stesso. Ed è in teatro che gli attori agiscono sulla scena da soli».
Libri scolastici, antologie e fogli di divulgazione culturale la inscrivono nella letteratura musulmana dei Balcani. Il primo riferimento che si fa per lei è il grande Meša Selimovic. Ma la sua produzione letteraria si riferisce, credo, a una zona culturale più complessa. Lei cosa ne pensa?«Sono uno scrittore mitteleuropeo.
Il divano orientale- il mio romanzo di maggiore successo - è una storia ambientata nel mondo musulmano medievale, ma la tecnica di scrittura, la forma è europea. Adotto qui il romanzo epistolare, il monologo interiore… non è un caso che i miei libri siano accettati benissimo in Austria, Germania, Svizzera, proprio nella Mitteleuropa. Il titolo
Divano orientale è la risposta al libro di poesie
Divano occidentale/orientale di Goethe. Ma il fatto che io sia stato messo insieme agli scrittori musulmani è una categorizzazione superficiale».
Che rapporto ha con la letteratura di carattere religioso o esoterico? Con il rumeno Mircea Eliade, con uno scrittore italiano come Elèmire Zolla?«Ho letto intensamente tutta una serie di scrittori mistici e anche esoterici, da Teresa d’Avila a Ugo di San Vittore, fino a Giordano Bruno; nella tradizione islamica Rabya Al-Adawiya, Faridudin Attar, Al-Halla…».
"Sarajevo centro del mondo" è un piccolo libro, una ottantina di pagine sull’assedio della città. Libro che ha avuto ed ha ancora un enorme successo. Perchè?«Forse per la sua semplicità. Questo è un libro che comunica con il proprio lettore, fa un discorso con lui. Scrivendo di situazioni elementari, quotidiane, il libro invita il lettore a fare un discorso. Il libro non voleva essere finito, finisce dentro il lettore. A New York nella comunità ebraica, leggevano il libro alla luce delle torce per "fare come a Sarajevo" e la gente piangeva leggendo».
Dragana Tomaševic, sua moglie, nata a Sarajevo, cittadina di Sarajevo, è serba. Che problemi comporta l’essere serbo oggi a Sarajevo?«Donna per di più e serba in una città piena di gente rancorosa, disperata, cui sono stati uccisi i figli, gente mandata via dalle proprie case, gente che non sa perché gli sparavano addosso. Persone così si vendicano, la disperazione gli fa vedere in Dragana una persona responsabile di quanto accaduto. Il peggio è che Dragana riesce a capire la loro disperazione e se io reagisco è lei a dire "no ti prego non farlo, dobbiamo capirlo"».
Quale sarà il destino di Sarajevo?«Tutto è cambiato e la fisionomia stessa di Sarajevo è mutata. Gli abitanti della città sono cambiati. Ci sono allora due possibilità: che Sarajevo riesca a trasmettere il proprio spirito ai nuovi abitanti, oppure che il rancore - sentimento senza speranza - e la rabbia, vincano lo spirito della città».