martedì 2 giugno 2015
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Il Medio Oriente disegnato dopo la Grande Guerra non esiste più: gli Stati si sono disintegrati e le società sono ferite in modo ormai quasi irrecuperabile. L’islamismo, iniziato un secolo fa, è entrato in una fase che, abbinando una razionalità estrema a un millenarismo esaltato, produce una miscela autodistruttiva. Confini considerati sacri, come i luoghi di culto, i cimiteri e il corpo delle donne, sono violati sistematicamente e con essi distrutta la coesistenza delle differenze.Nell’ultimo secolo si è assistito in Medio Oriente a un processo di costruzione di Stati e poi alla loro disintegrazione. Come possiamo leggere e spiegare il fenomeno?«È una questione molto complessa. Abbiamo l’impressione di padroneggiare questa storia ma allo stesso tempo ne sappiamo molto poco. Da un lato sappiamo che in seguito alla Prima guerra mondiale il mondo arabo è stato diviso e che questa divisione non è stata voluta dagli arabi, come dimostrano a partire dagli anni ’20 la grande rivolta irachena, la rivolta siriana e poi la rivolta palestinese. Dall’altro sappiamo anche che gli spazi che si sono costituiti avevano già un’identità, per quanto mal definita. A ogni modo negli anni ’20 emerge una corrente nazionalista araba, ampiamente influenzata dalle destre rivoluzionarie e dalle destre radicali in Europa. Tuttavia questo movimento fallisce. Riesce a conquistare l’intellighenzia, ma non a smantellare le vecchie aristocrazie ereditate dall’Impero ottomano. Le cose iniziano a muoversi soprattutto a partire dalla creazione dello Stato d’Israele nel 1948, quando una certa sinistra riesce a conquistare l’intellighenzia e lo spazio politico. È una sinistra molto complessa, allo stesso tempo nazionalista e progressista, con una base sociale reale e che perviene a innescare dei processi di trasformazione, ma che allo stesso tempo porta al potere un esercito più o meno sostenuto da una corrente civile. Pur sollevando anche la questione sociale, si concentra soprattutto sulla questione nazionale. La formula politica che propone è autoritaria: occorre che la nazione sia forte per affrontare Israele e quello che veniva definito come l’imperialismo. Non si pone perciò la questione della democrazia, della legittimazione dei conflitti e delle differenze. La società è percepita come un corpo organico, si pratica il culto del partito unico e del leader. Gradualmente i regimi nati da questa stagione diventano o dittature militari, come nel caso dell’Egitto, o dittature espressioni di una confessione o di una parte della popolazione, come in Siria e in Iraq. Il fallimento di questa sinistra è confermata dalla Guerra dei Sei Giorni nel 1967. Si passa allora dalla sinistra all’islamismo».Possiamo interpretare l’ascesa dello Stato islamico come la consumazione finale di questa dinamica? «Credo di sì, ma allo stesso tempo questa lettura deve essere sfumata. Nella storia dell’islam c’è una contraddizione fondamentale che Leïla Babès ha analizzato molto bene nel suo L’utopia dell’islam. Da un lato l’islam impone l’obbligo assoluto di obbedienza al tiranno, sia esso principe, sultano o califfo, anche se è empio. Questo per scongiurare l’esperienza atroce delle prime guerre civili. Dall’altro c’è la richiesta di una società giusta. Ora, le due istanze sono fondamentalmente contraddittorie e spiegano perché l’islam produca allo stesso tempo obbedienza e contestazione. L’obbedienza significa che il tiranno può diventare estremamente violento. La contestazione e la domanda di giustizia significano che l’opposizione può a sua volta diventare estremamente violenta. Le due alternative escludono la democratizzazione. Nella misura in cui l’islam non osa affrontare questa contraddizione, la riproduce nel tempo, anche oggi». Lo Stato islamico invoca un progetto di costruzione statuale, ma questo progetto si nutre del sacrificio e dunque dell’auto-distruzione dei suoi militanti. Come si può spiegare questa contraddizione?«Non ho una risposta, ma ultimamente ho riflettuto molto su questa questione. L’esperienza storica che mi viene in mente, anche se bisogna diffidare dei paragoni, è il nazismo o eventualmente i Khmer Rossi. Il nazismo ha posto diverse questioni a filosofi e intellettuali come Walter Benjamin, Karl Kraus, Hannah Arendt, Ernst Bloch, Sebastian Haffner. Il problema nasce dal fatto che il nazismo da un lato è dotato di una struttura assolutamente razionale del potere (la disoccupazione è risolta, l’esercito è ricreato, lo Stato è ricostituito), ma dall’altro questa razionalità è sacrificata a obiettivi puramente millenaristi, persino nichilisti, e perciò totalmente irrealizzabili. È come se la razionalità e la distruzione della razionalità andassero di pari passo. Sarei più prudente con i Khmer Rossi, ma anche in questo caso si constata una dinamica di costruzione e di auto-distruzione. Ho l’impressione che lo Stato islamico si trovi esattamente in questa ambiguità. Da un lato dimostra una straordinaria razionalità, che sfocia nella creazione di qualcosa di simile a uno Stato: un territorio di duecentomila chilometri quadrati, una popolazione di sei milioni di abitanti, dei confini, delle transazioni economiche. E allo stesso tempo tutto è sacrificato sull’altare di un millenarismo che abbiamo molta difficoltà a definire e che si esprime negli attentati suicidi o nella moltiplicazione deliberata dei nemici. Un attore razionale non moltiplica i suoi nemici. Tutto questo non può durare: dovranno scegliere tra l’approfondimento istituzionale e un nichilismo completo. Ciò detto, l’impressione è che se Isis scomparisse domani, con lui scomparirebbero anche le società. Non è solo lo Stato a essere in gioco. Mi spiego: se trasponessimo il conflitto siriano sulla scala di un Paese come la Francia, avremmo 750.000 morti, 32 milioni di rifugiati o deportati e Marsiglia, Lione e Rennes non esisterebbero più. Ciò che sta accadendo in Medio Oriente viene spesso recepito come un fatto di cronaca. Ma non lo è. Le società scompaiono e niente ci dice che domani potremo ancora parlare di una società libica o che in Yemen o in Iraq ci sarà ancora una qualche forma di società».Lei ha studiato la violenza in Medio Oriente. Come è evoluta nel XX secolo?«È cambiata molto. Negli anni ’20 e ’30 era all’opera una violenza insurrezionale, che però non era auto-sacrificale. Tra gli anni ’50 e ’70 c’è una violenza “positiva”: ci si batte contro gli inglesi o contro gli americani, ma allo stesso tempo si cerca di costituire un nuovo universale in una logica di tri-continentale (Asia, Africa e America Latina) contro l’imperialismo. Questa violenza implica molto avventurismo, molta irresponsabilità, molte derive, ma non s’inscrive in una logica sacrificale. A partire dagli anni 1979-1980 invece si entra gradualmente in una logica di autodistruzione. Negli anni ’80 si registrano in terra araba quattro o cinque attentati suicidi, i primi dei quali in Libano. Uno dei primi in assoluto è compiuto da una giovane cristiana comunista contro le forze israeliane. Ma non siamo ancora in una logica religiosa, visto che questa giovane non si suicida in quanto cristiana ma in quanto comunista. In ogni caso negli anni ’80 non si arriva a dieci attentati suicidi, mentre credo che il loro numero tra il 2003 e il 2011 nel solo Iraq superi il migliaio. Che cosa significa l’attentato suicida? Significa che il passato non è più fonte di orgoglio, che il futuro non ti promette nulla e che distruggi il presente per distruggere e il passato e il futuro. L’attentato suicida è la distruzione del presente, ma la distruzione del presente significa la distruzione del tempo, come diceva sant’Agostino. L’attentato suicida rappresenta la distruzione del tempo, la distruzione dell’alterità. Distruggi l’altro in te e così impedisci la pluralità. Tutto questo è stato banalizzato al punto che oggi più nessuno nota il fenomeno. Perciò è indubbio che le forme di violenza siano cambiate molto, anche rispetto agli anni ’80».
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