Nell’arco di un anno, dal 7 giugno 2009 al 22 agosto 2010, Jean Vanier e Julia Kristeva hanno intessuto una corrispondenza fatta di nove lettere del primo e di dieci più una e-mail da parte della seconda. «Nell’epoca degli sms e di Facebook non pratichiamo più la corrispondenza come una delle belle arti: né testamento, né confessione, né romanzo… Tu e io – continua Julia – abbiamo scelto per la nostra corrispondenza un tema, un impegno, nella speranza di farlo rivivere con coloro che lo sperimentano nella sofferenza e nel superamento, ma anche con coloro che se ne ritengono risparmiati Come nel più emblematico e supremo degli epistolari, quello dell’apostolo Paolo, anche qui la concretezza si insinua nella riflessione, l’affetto non esita a inoltrarsi sui sentieri d’altura del mistero, la quotidianità lacerata si sottopone al giudizio della ragione e della fede. Alla fine si leva da una modesta radice un albero dal tronco solido e dai rami possenti. La radice è in un incontro a colazione nella sede originaria dell’Arca di Jean Vanier a Trosly-Breuil nel giorno antecedente alla prima lettera: Julia ne parla con David, il figlio da lei avuto col suo compagno, lo scrittore Philippe Sollers, un ragazzo colpito da una malattia neurologica. Egli si affaccerà in queste lettere, evocato con tutta la delicatezza di una madre ma anche con la certezza che «David ha una bella bio-grafia, nella coabitazione con la sua fragile ed enigmatica
zoé», secondo la nota distinzione semantica tra i due termini greci. «Il mio David – confessa ancora la madre – con le sue difficoltà psicomotorie, e forse perché noi, suo padre e io, l’abbiamo circondato di tanto amore, ma anche di esigenze e attività che non lo hanno mai tagliato fuori dal mondo, vive la sua solitudine con una serenità matura, che è divenuta per me un esempio e il miglior modo per andare incontro alla mia personale capacità di essere sola». Da questa radice vibrante sorge il tronco dell’albero nel quale entrambi i corrispondenti progressivamente sembrano scavare una sorta di piroga o canoa per navigare inizialmente nel mare della sofferenza, ma poi anche nell’oceano aperto dei misteri che ci avvolgono, coinvolgono e talora anche travolgono. Lentamente il cammino da solitario si fa solidale, dal «Lei», il «Vous» francese, si passa al «tu», in un crescendo di amicizia che non offusca mai il cielo cristallino della riflessione e dell’analisi, ma che lo rende più luminoso e caloroso, conducendo fino alla spontaneità dell’abbraccio sulla strada comune, che spesso è un tracciato faticoso di montagna. Il suggello finale sarà emozionante. Julia: «Ero, sono e sarò nella tua Arca. La vulnerabilità estrema e il limite della vita trasformati in comunità». Jean: «Grazie, cara Julia, per questa corrispondenza. Spero che essa continuerà sotto un’altra forma. Sì, tu hai fatto nascere in me un nuovo soffio di vita». Noi siamo invitati a navigare con loro in questo mare apparentemente tempestoso, in realtà colmo di epifanie di «fede e luce». Bisogna, però, attrezzarsi per questo viaggio, ritrovando la purezza di mente e di cuore e la libertà dagli stereotipi, riconquistando la capacità di stupirci perché, come ammoniva già Chesterton, «il nostro mondo non perirà certo per mancanza di meraviglie, bensì di meraviglia». Quando si muovono i passi su questo territorio esistenziale c’è una sorprendente figura che viene incontro a entrambi gli interlocutori: è il «Dio handicappato» cristiano che si rivela nella sofferenza e nella morte di Cristo, «terribilmente umano e meravigliosamente divino», risorto ma ancora con le piaghe della passione. Julia Kristeva rimanda al saggio di Nancy L. Eisland, che nella sua carne ha vissuto questa esperienza e ha intitolato il suo libro in modo esplicito
The Disabled God (1994), orientandolo verso una sorta di «teologia della disabilità». È questo Dio «vulnerabile e angosciato» il Dio che Vanier ha incontrato e gli ha cambiato la vita: «La mia fede in Dio non è una fede in un Dio di potenza, ma una fede in un Dio potente che diviene impotente, che si fa povero per raggiungerci nella nostra povertà umana». È la stessa intuizione del teologo martire Dietrich Bonhoeffer, che nel lager nazista scrive senza imbarazzo che «Dio in Cristo ci salva non in virtù della sua onnipotenza bensì della sua impotenza». Essa lo rende non solo vicino ma intimo all’umanità vulnerabile e vulnerata. Il tronco dell’albero di questo epistolario che, come si diceva, offre l’imbarcazione per navigare nel mare della disabilità e dei suoi corollari, ci conduce però lungo rotte ramificate che approdano nell’oceano più vasto, rotte che i lettori potranno seguire con facilità. Ci sono, ad esempio, pagine molto belle sulla tenerezza. Julia parte da un dolce ricordo delle sue origini ortodosse bulgare con la deliziosa icona di Vladimir detta «della Vergine eléousa», la Madonna della tenerezza, una «virtù materna-e-paterna, principio fondatore dell’Arca». E Jean commenta che «la tenerezza è frutto della libertà. Per suo tramite ci si libera dalla pressione delle pulsioni e dei desideri» e da essa «scaturiranno la creatività, i desideri molteplici, una sete, una luce, un amore nuovi». Fine è anche l’analisi della costellazione fatta di femminilità, maternità, generazione, famiglia, così come intensa è l’attenzione alla solitudine la quale è «la singolarità che vive il desiderio ma è anche l’impotenza della comunione», come osserva Kristeva, distinguendo così tra solitudine feconda, che può aprirsi all’intimità con se stessi e col divino, e isolamento gelido e sterile, campo da gioco del demone della disperazione.