Fino a non molto tempo fa la produzione ultima di Giorgio de Chirico è stata pressoché ignorata, considerata opera senile, asservita al mercato. Oggi la si guarda, da parte di alcuni critici, con occhio differente, inquadrandola nell’intero percorso espressivo del maestro e soprattutto rileggendola in relazione all’uomo e alla sua storia interiore. D’altra parte spesso la critica indugia in analisi puramente estetiche o contenutistiche, senza considerare le motivazioni profonde del linguaggio e dell’uomo.
A proposito di de Chirico, ad esempio, non sempre s’è opportunamente considerato che le celebri Piazze d’Italia e in generale i suoi luoghi metafisici sono anche la risposta visiva a una crisi d’anima, avvenuta in un periodo difficile della vita del maestro, ad un avvertimento turbato del destino dell’uomo.
Nella prima Metafisica, quella degli anni 1910-1918, si legge, come è noto, un senso d’allarme, un disorientamento che per altro verso segnala la crisi d’identità dell’uomo moderno, come ha scritto Maurizio Calvesi, forse il maggiore studioso vivente dell’arte dechirichiana, «vissuta con spirito di profezia come però sbarrato e interdetto dalla coscienza di un non-senso del mondo». Nel successivo periodo, quello in particolare degli anni Venti e Trenta, che ancora Calvesi definisce della «Metafisica riformata», il maestro torna alla dimensione figurativa in senso tradizionale, attingendo alla temperie prima rinascimentale e poi barocca; la figura umana prende corpo, sostituisce progressivamente manichini e fantocci per assumere la compattezza viva della carne e una più sicura evidenza psicologica.
E tuttavia, al di là di ogni retorica che comunque ha caratterizzato molta arte dechirichiana di quegli anni, mai viene tradita nel profondo la tensione metafisica; semmai cambia l’atteggiamento dell’artista di fronte al mistero. Sicché l’ultimo periodo, quello della cosiddetta Neometafisica, in cui l’artista sembra rimescolare i termini del suo stesso linguaggio, non può che essere interpretato in chiave di continuità col passato.
Promossa dalla Fondazione Molise Cultura, un’esposizione da poco aperta nel Palazzo Ex Gil di Campobasso, con la cura di Lorenzo Canova, esplora con questi presupposti la produzione degli ultimi dieci anni di vita di de Chirico: anni in cui il maestro sembra essere animato da un sentimento ludico, recuperando liberamente il suo ricco repertorio iconografico.
La mostra, organizzata in collaborazione con la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, raccoglie una settantina di opere tra dipinti, disegni e grafiche. Nel catalogo ( Regia Edizioni) è riportato il testo appena rivisitato che Maurizio Calvesi scrisse per la precedente, pionieristica mostra sulla Neometafisica, tenutasi a San Marino nel 1995. In esso, riferendosi al maestro, il critico afferma: «I suoi personaggi, i suoi manichini, i suoi oggetti, le sue architetture sono in realtà divenuti giocattoli e il senso del gioco – che pure era già segretamente latente in qualche angolo della prima Metafisica – trionfa ora come una chiave creativa del tutto nuova, vitalizzata da un’assoluta coscienza di libertà e di dominio sul proprio mondo poetico e persino psichico; da cui non è più sopraffatto, ma di cui diviene il disincantato regista».
A precisare anche in senso storico-critico e in parte sociologico l’opera ultima dechirichiana è Lorenzo Canova nel suo ampio saggio introduttivo. «L’artista con le sue riflessioni – scrive lo studioso – ha aperto a quella celebrazione dell’insensatezza del mondo e della vita che sarebbe stato uno dei cardini della poetica dadaista e delle avanguardie di qualche anno dopo e che de Chirico ha collocato sulle basi filosofiche di Schopenhauer e dello stesso Nietzsche (…) tracciando un solco senza il quale molte esperienze del Dadaismo, del Ritorno all’Ordine, della Nuova Oggettività, del Realismo Magico, del Surrealismo, fino alla Pop Art e oltre sarebbero state semplicemente impensabili (…). Ne è scaturito un discorso del tutto differente che apre alla visione dell’arte che sta segnando il panorama attuale nell’idea di “remixaggio” e ripensamento fecondo del passato».
A chiarire in senso spirituale il percorso dechirichiano è infine Elena Pontiggia nel terzo saggio. Nelle opere ultime del maestro «non c’è più disperazione, ma accettazione disincantata delle contraddizioni e delle illogicità dell’essere, osservate quasi con distacco». Forse nel segno della speranza.
Campobasso, Palazzo ex Gil
GIORGIO DE CHIRICO
Gioco e gioia della neometafisica
Fino al 6 aprile