Se si arriva a St. Beuno’s da nord est, varcando il confine del Galles provenendo da Manchester, a un tratto, seguendo la costa, il panorama si apre sulla palude della baia di Liverpool che spezza la dolcezza del panorama introducendo un che di selvatico e di desolato. Proseguendo verso Flint e Prestatyn si ricordano i versi del grande poeta gallese R.S. Thomas: «Una collina si illumina all’improvviso; un campo trema / di colori e si spegne / a sua volta». È questa una strada per St. Beuno’s nel Denbighshire, contea del Galles del Nord. Qui i gesuiti nel 1848 aprirono il college per gli studi teologici dei membri in formazione. Una volta si studiava rimanendo fuori dal mondo, lontani dalle città e in un regime di vita semi-monastico. E questo luogo ha mantenuto ancora oggi i suoi tratti originari, dopo essere stata trasformata in casa di esercizi spirituali (www.beunos.com). Oggi è diventata molto nota grazie a un documentario della Bbc dal titolo The Big Silence che è ambientato al suo interno. Il complesso è un curioso miscuglio di stile vittoriano romantico neo-medioevale, in parte monastico, in parte simile a una fortezza (ha le feritoie!), in parte nello stile accademico tipico delle istituzioni di Oxford e Cambridge. Ed è qui, tra il 1874 e il 1877 che il poeta Gerard Manley Hopkins, nato anglicano nel 1844 e divenuto cattolico e poi gesuita a ventiquattro anni, fece i suoi studi e scrisse i suoi versi migliori, tormentato dal timore che l’ispirazione poetica celasse in sé un sentimento di superbia. L’occhio dell’inglese e assolutamente british Gerard, figlio della rare-dear (rara-cara) Britannia, nato a Stratford in Essex nei paraggi di Londra, si spalanca di colpo. Abituato ai panorami vittoriani webbed and watery, velati e acquosi, adesso è invece percosso dai campi a patchwork tremanti di colori. È rapito. I versi di Hopkins qui, in questa «cima pastorale dell’ameno occidente», respirano e inspirano l’«aria selvaggia» che, scrive Gerard, «veste» le cose, che egli elenca con meraviglia: boschi, acque, prati, creste, valli. E tutto il paesaggio vive immerso in una «bella e liquida tinta di blu». A St. Beuno’s «il mondo è carico della grandezza di Dio», scrive Hopkins in God’s Grandeur, una delle sue composizioni più celebri. Ma anche forse tra le più fraintese: per il trentenne Gerard, dai modi gentili, sì, ma dall’animo inquieto e dal «sangue danzante (dancing blood)» a causa della «bellezza mortale», il mondo è «carico» non del peso di Dio, ma dalla sua energia elettrica. Il mondo, scrive, fiammeggia come una lamina d’oro esposta alla luce e percossa. Hopkins esalta dunque Dio non in quanto stabile sicurezza dell’essere, ma in quanto autore delle differenze e delle energie polarizzanti. Il vento abita i cieli di St. Beuno’s e deve aver avuto un ruolo decisivo nel suo modo di vedere il mondo. Se ci si trova nella zona alta dell’edificio detta Hamlets, probabilmente quella dove il poeta ha abitato, si occupa uno spazio angusto e scomodo, ma spalancato da una finestra sull’immensa valle del fiume Clywd. Hopkins vedeva in un colpo d’occhio a lunga distanza i prati e il cielo e i loro movimenti. A St. Beuno’s è il vento che muove e dà instabilità a tutto. Ma il vento è quello delle correnti atmosferiche: vola in alto e spinge un piccolo rapace come il gheppio a «cavalcare la ruotante lista aria sotto di lui salda». Il grande vento di St. Beuno’s fa scorrere le nubi come «sacchi di seta» in «una corsa di ricchezza (a rush / With richness)». Così deve essere stato St. Beuno’s all’arrivo di Hopkins, in agosto. Il sole d’estate copre come un manto d’oro i prati, rendendoli brillanti come un foglio dorato, ma l’ombra delle nubi, «intrecciate e annodate», come il poeta scrive nel suo diario, lo scuote continuamente. Anche R.S. Thomas vedeva «il sole irrompere dalle nubi / e illuminare un piccolo campo / per un momento» come un improvviso «roveto ardente». Ma Hopkins va oltre. Tutto «trema», dice Thomas. Tutto fiammeggia, replica Hopkins. Poi si «spegne (goes out)», dice Thomas. «Mai si spegne (is never spent)», ribatte Hopkins. Perché? Perché «vive in fondo alle cose la freschezza più cara». Ogni cosa ha grazia.
Persino la tristezza evocata dal paesaggio in autunno è graceful. E qui, in questa differenza di visione, c’è anche tutta la differenza spirituale tra i due grandi: Thomas e Hopkins, il prete poeta anglicano e il prete poeta cattolico. Gerard deve aver cambiato stanza nel 1876 perché in una sua poesia di quell’anno, scritta il 19 giugno in un momento di insonnia, parla del sorgere della luna dal cupo monte Maenefa che sta alle spalle della valle del Clywd. E anche qui da una delle finestre che oggi sono sopra l’ingresso principale, nella zona detta Mansions, si apre per lui «la visione preziosa, desiderata, non cercata, offerta così semplicemente, / che mi spartì foglia a foglia, mi divise, palpebra a palpebra di sonno». E così il trentenne Gerard si innamora del Galles. Anzi pretende di essere half Welsh, dato che scopre che il suo cognome non è raro da quelle parti. Assume il nome bardico di Bran Maenefa. Studia la lingua e la trova complicata ma eufonica e regolare. Il groviglio di consonanti per lui dà vita invece a un suono “tutto vocali” nella parlata «fluida come l’olio» dei locali ricca di dittonghi e trittonghi. Che cosa affascina Hopkins? Curioso che egli usi per la lingua l’immagine dell’olio che usa anche per dire la grandezza di Dio che vede nel paesaggio gallese: «gocciolio d’olio franto». E anche la lingua gallese è olio vocalico che si produce dal frantoio dalle consonanti delle quali è ricco. Così Hopkins ha inventato una lingua, e poeti come Auden, Heaney, Lowell, Sylvia Plath, Dylan Thomas, Elizabeth Bishop hanno apertamente riconosciuto il loro debito nei suoi confronti. È il ritmo che colpisce Hopkins, la spezzatura, il movimento che genera armonia. Dio stesso per lui è «ritmo», quello proprio dell’ondeggiare del mare che egli vede all’orizzonte. Questo è il ritmo della lingua, che è poi lo stesso delle nuvole che scorrono in cielo e delle loro ombre sui prati. Un ritmo che solo la recitazione ad alta voce (come quella di Billy Hewett o di Dylan Thomas) e non la lettura silente riesce a esprimere; una tensione linguistica che nessuna traduzione è mai riuscita a rendere, se non la manciata di versi tradotti da Lello Voce, o il canto di Natalie Merchant. Il legame tra paesaggio e parola detta e scritta è il vincolo che genera la poesia di un luogo e di un’ispirazione poetica. In settembre Hopkins scrive nel suo diario: «Per tutta l’estensione della valle, la linea dell’orizzonte delle colline era tutto fluidamente scritto (written) sopra il cielo». E lì, guardando la valle che si apre davanti a St. Beuno’s «ho sentito l’intima forza (instress) e il fascino del Galles».
Hopkins è attento alla qualità essenziale di ogni cosa, a ciò che è causa della sua assoluta unicità. Definisce questa qualità col nome di inscape, una sorta di visione interiore. La sensazione che provoca l’inscape di una cosa è l’instress, cioè il modo con cui noi riusciamo a vedere l’intimo disegno di una cosa o il ritmo di un movimento, una specie di vitalità interna alle cose che ne promuove la comprensione. È, insomma, il suo potere comunicativo, che tanto ha inspirato Marshall McLuhan, grande lettore di Hopkins, e si concretizza spesso in emozioni epifaniche. Ha ragione Heaney quando in maniera concisa ed essenziale afferma che «Hopkins ci sveglia per percepire»; e così ha ragione anche Attilio Bertolucci quando parla della sua poesia come di un «piccolo pacco d’esplosivo ad alto potenziale». St. Beuno’s è il paradiso terrestre dove il poeta percepisce un’eco del dolce essere della terra all’origine (earth’s sweet being in the beginning). Nel gheppio come nel sasso, nella libellula come nel corpo umano, nell’aria come nella zolla Hopkins percepisce un’esuberanza, una bellezza sbocciante, un rigoglio di godimento giovane, da cui viene attratto irresistibilmente. E tutto questo è l’eco caldo della creazione, che a St. Beuno’s risuona in maniera gloriosa al tramonto, una vera festa di colori, quando il sole cala a picco sull’Oceano verso l’occidente di susina screziato.