La scrittura è fitta, regolare. La grafia non conosce indecisioni, non inciampa in correzioni, non tradisce l’emozione. Eppure Franz Jägerstätter «scrive con le mani legate». Lo separano solo poche ore dalla morte, decretata nel 1943 da un tribunale di guerra di Berlino. La sua “colpa”? Quella di aver rifiutato, nella Germania precipitata nell’orrore del nazismo e della guerra, di imbracciare le armi. Il fermo, irremovibile “no” di questo contadino austriaco – attestato nel fascio di lettere indirizzate, a partire dal 1940 e interrotto solo dalla morte, alla moglie Franziska e per la prima volta tradotte in italiano in
Una storia d’amore, di fede e di coraggio.
Franz e Franziska Jägerstätter di fronte al nazismo (Il Pozzo di Giacobbe, pagine 280, euro 22,50) non è destinato al servizio militare in generale. Franz non rifiuta di “servire la patria”, rifiuta di uccidere. Rifiuta di rinnegare le propria fede in nome di un regime che ha mostrato il suo volto più feroce, una macchina di morte che dispensa sterminio e distruzione. Rifiuta il principio dell’obbedienza cieca e assoluta, a qualsiasi autorità essa venga tributata, se questa comporta il tradimento di un credo per il quale Franz, respinta ogni scorciatoia per sottrarsi alla condanna, è disposto a morire.
Qual è l’eredità che le lettere di Franz a Franziska consegnano al nostro tempo? Quale “lezione” contengono? Quella testimoniata da Franz Jägerstätter – scrive Daniele Menozzi nell’introduzione all’epistolario dei due coniugi – è la «radicale antitesi tra nazionalsocialismo e cristianesimo». Ma anche, e soprattutto, la «forte rivendicazione dell’assoluta responsabilità individuale per una decisione radicata nella profondità della coscienza nella quale Franz coglie l’espressione della voce di Dio». C’è, nel vissuto di questo premuroso marito, di questo padre attento, la prova che la via – radicale perché spinta fino al martirio – del rifiuto di ogni compromissione con la tanatopolitica di Hitler era possibile ed è stata percorsa.
Nell’ultima lettera indirizzata alla moglie, Franz ha la forza di testimoniare in maniera limpida la sua fede: «Né il carcere, né le catene – scrive – e neppure la morte possono separare un uomo dall’amore di Dio e rubargli la fede e la sua libera volontà. La potenza di Dio è invincibile». Affiora in questi scritti la coscienza, altrettanto lucida, che non si può vivere la fede a intermittenza, che non si può essere «cristiani tiepidi» perché sarebbe «un vegetare più che un vivere», che l’obbedienza – come avrebbe detto decenni più tardi don Lorenzo Milani – non sempre è una virtù: «Per quale motivo preghiamo Dio e chiediamo i sette doni dello Spirito Santo, se dobbiamo comunque prestare in ogni caso cieca obbedienza?». E ancora: «Ma Cristo vuole da noi anche una dichiarazione palese della nostra fede, proprio come Adolf Hitler la pretende dai suoi seguaci. I comandamenti di Dio ci insegnano che dobbiamo prestare obbedienza ai nostri superiori, anche se non sono cristiani, ma solo finché non ci ordinano qualcosa di sbagliato, poiché dobbiamo obbedire più a Dio che agli uomini».