Ricordo quarant’anni fa mio padre che acquistava settimanalmente in edicola la dispensa della
Divina commedia in grande formato con le illustrazioni di Gustave Doré. Toccò poi anche alla
Bibbia, così che nella nostra piccola libreria quei volumoni con le immagini dell’incisore francese stavano in bellavista accanto all’enciclopedia
Le Muse (una miniera di informazioni e immagini dove m’infarinai sulle diverse arti), all’
Imago Mundi, l’enciclopedia edita dall’Istituto di ricerche geografiche in 4 volumi, e all’
Enciclopedia Europea della Garzanti in 12 volumi. La Treccani non era alla portata delle tasche di mio padre, ma le altre sopperivano bene a quella mancanza. Il lettore mi perdonerà questa memoria ormai abbastanza lontana, perché in realtà essa dice qualcosa di più di un ricordo personale, fotografa un Paese dove la famiglia media italiana, che sbarcava il lunario con lo stipendio da operaio o da impiegato dei padri, ma anche talvolta delle madri, era un luogo dove la vendita a dispense di grandi opere o enciclopedie segnalava l’orgoglio di acculturarsi, di avere in casa quel sapere fondamentale che era stato appannaggio solo dei ceti più abbienti e oggi, magari, ci arriva attraverso lo schermo di un computer con molta più facilità (ma anche con molta meno soddisfazione per quanto di virtuale c’è in ogni cosa che passa da quella finestra). Ricordo che guardavo le incisioni di Doré e mi chiedevo, poco più che bambino, come aveva fatto a disegnare con quella meticolosità; mi sembravano fotografie più che prodotti della mano umana che impugna la matita o il bulino. Ciò che a me colpiva sia per la bravura tecnica, sia per la forza immaginativa, per Doré fu una specie di maledizione. Un destino contro cui lottò nell’unica maniera che conosceva bene: sfidare il mondo dell’arte a riconoscergli quella caratura di pittore, e poi anche di scultore, che tuttavia fu sempre avvolta e sopraffatta dall’aura dell’illustratore sopraffino che era. In un autoritratto a penna del 1895, quando era ormai sessantatreenne, appare coronato dal lauro con un profilo che ricorda lontanamente l’Alighieri, s’intitola:
G. Doré nel 1895. Tante illustrazioni ma poca gloria: lo stato d’animo doveva essere quello di un uomo che, avendo vissuto buona parte della propria vita, celebrato per le sue doti di illustratore, invidiava ad altri quella fama che appartiene agli artisti che segnano le vette delle arti maggiori. Ma, in effetti, come Daumier, che ancora oggi viene ricordato anzitutto per le sue caricature, disegnate e scultoree, anche Doré abbracciò, dopo i primi passi nella grafica, le arti sorelle. Lo ricorda nell’introduzione al catalogo della mostra che si può vedere al Museo d’Orsay di Parigi, Philippe Kaenel, che questa rassegna ha concepito e ordinato. È fuor di dubbio che Doré avesse delle doti pittoriche, le cose forse più riuscite sono i suoi dipinti a gouache e acquerello, suggestivo quello intitolato
E quindi uscimmo a riveder le stelle del 1861; e del resto la sostanza più prossima allo sguardo di Doré sembra essere proprio quella del mondo dantesco, come si capisce in un quadro a olio straordinario e terribile come
Dante e Virgilio nel nono cerchio dell’Inferno dello stesso anno.Alla retorica del simbolo, della rappresentazione letteraria, di una
grandeur sempre rispettosa delle convenzioni sociali e culturali è volta anche la sua scultura, che denota capacità tecnica ma poca ispirazione. Il sunto sta nell’idea di artista totale che Doré ambiva a essere, ma la sua arte versatile difficilmente esce per così dire di pagina, non si abbandona mai all’errore e allo scarto improvviso. Ne deriva un mondo che, fuori dall’illustrazione, impressiona ma non sorprende.Doré amava la fama, aveva ambizione ed era piuttosto narcisista, come s’intuisce in alcune foto che lo ritraggono; al pari di molte persone che cercano questo surrogato della vita con spasmodica bramosia, era prigioniero di una specie di ciclotimia: egocentrico esuberante, cadeva periodicamente in stati melanconici. La sua immaginazione – proprio le scene dell’Inferno Dantesco o certi episodi dell’Antico Testamento, vedi la morte di Sansone, ne testimoniano – era certamente prodigiosa; si avverte una forza pari a quella con cui Rodin porta alla luce dall’ombra le sue figure (sappiamo quanto Rodin debba a Michelangelo, e anche Doré se ne ricorda quando opta per una illustratività monumentale). Si capisce, in certi disegni, che aveva in mente William Blake, certe spirali di corpi nelle scene della Commedia lo dicono con chiarezza, ma poi è come se quella stessa immaginazione seguisse spartiti meno visionari e più letterari, gabbie narrtive che frenano, al momento buono, il gesto icastico e trasgressivo. Insomma, Doré è forse più fantastico che immaginativo, non ha la “follia” dell’inglese, un fuoco che può anche metterti a rischio se vai fino in fondo. Come suo contraltare, in pittura, trova certamente Manet, scrive Kaenel. Tanto Manet semplifica, opera con una sprezzatura tecnica che gli consente sintesi estreme dove il colore quasi elude il disegno; così Doré si tiene stretto al “groviglio” grafico che tesse come un bozzolo, anzi in barocche acconciature formali. C’è sempre un autocontrollo, una consapevolezza del limite da non superare, del tabù solo sfiorato anche quando l’immagine è apocalittica.Il talento di Doré soprende quando si dedica alla caricatura: qui si libera di una certa “nerezza” di sguardo e si concede all’ironia, alla satira, alla critica sociale. Si veda quella singolare immagine dedicata a Ivan il Terribile del 1854 (quando ha soltanto 22 anni e la briglia ancora sciolta), nell’
Histoire pittoresque, dramatique et caricaturale de la Sainte Russie: una grande nuvola rosso-sangue sfrangiata occupa quasi per intero il foglio, nessun altro segno sulla carta. Così, anche sul proprio Paese, non manca la caricatura del «popolo più rivoluzionario d’Europa» che un po’ anticipa, nella varietà ironica dei tipi umani, quella definizione che Céline darà un secolo dopo dei francesi «grande accozzaglia di poveracci del mio stampo, cisposi, pulciosi, cagoni, assediati da fame, peste, tumori e freddo, arrivati già vinti dai quattro angoli della terra», ma con un cinismo più ironico, aristocratico tirarsi fuori dalla mischia, ciò che allo scrittore del
Voyage , invischiato dai catrami della Grande guerra e delle sue derive nichiliste, non poteva certo passare per la testa. Lo sguardo di Doré è finalizzato all’immagine non al modello da cui parte, come accade, invece, nei disegni di Géricault che ritraggono la bassa umanità dei sobborghi londinesi: la Londra di Doré non sarà mai quella dickensiana, acida, melmosa, che ti fa respirare i sentori dei bassifondi. Ma è proprio in questa “distanza” dalla vita che egli ha perduto il bandolo che lo legava all’arte più grande.