Nella storia della Resistenza italiana, così ricca di martiri e di eccezionali figure, un ruolo significativo assume un giovane prete vincenziano, don Giuseppe Morosini, animato da una fede profonda, dall’amore per il prossimo, dal desiderio di educare i giovani nel nome di Cristo e da un senso profondo della giustizia e della carità cristiana, che lo condusse in difesa dei valori della libertà contro ogni forma di oppressione e di tirannia e a cogliere immediatamente quale doveva essere il suo dovere di prete e di italiano. Nato un secolo fa a Ferentino in provincia di Frosinone il 19 marzo 1913, venne barbaramente fucilato il 3 aprile 1944 al Forte Bravetta di Roma, in esecuzione a una condanna a morte comminata il 22 febbraio da un tribunale militare tedesco. La sua tragedia si consumò nel clima drammatico che Roma visse nei nove mesi dell’occupazione nazista. Entrato giovanissimo nella Congregazione della Missione, don Morosini era stato ordinato sacerdote a Roma, nella basilica di san Giovanni il sabato santo del 1937, all’età di ventiquattro anni. Il giorno di Pasqua, 28 marzo, celebrò la sua prima messa al collegio Leoniano. Dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, fu nominato cappellano militare del 4° reggimento d’artiglieria a Laurana in provincia di Fiume. Trasferitosi a Roma nel 1943, si prese cura di centocinquanta bambini abbandonati e senza mezzi di sostentamento, provenienti da zone sinistrate della guerra, e alloggiati nella scuola Pistelli, nel quartiere Delle Vittorie. Di fronte al terrore nazista fece con coraggio le sue scelte, dando rifugio a partigiani, ebrei, militari sbandati, perseguitati, cercò di proteggerli e di salvarli, divenne l’assistente spirituale della banda partigiana comandata dal capitano dell’esercito Fulvio Mosconi, che operava a Roma sulle pendici di Monte Mario. Con questi uomini celebrava la Messa, portava loro i conforti religiosi, rifornendoli anche dei necessari beni materiali, quali vestiti, scarpe, prodotti alimentari e altri generi di consumo. La sua collaborazione andò oltre, nascose armi e giunse anche a procurare utili informazioni logistiche e militari, in particolare sulla dislocazione delle truppe tedesche sulla "linea Gustav". Il suo arresto, il 4 gennaio, si deve alla delazione e all’inganno di un infiltrato, Dante Bruna, che tradì la buona fede di don Giuseppe, per un compenso di 70 mila lire. Al suo arresto seguirono una lunga serie di interrogatori, intimidazioni, ricatti morali, torture, per costringerlo a indicare nomi e circostanze relative alle forze partigiane con le quali era in contatto. Non negò gli addebiti riguardanti la sua persona, ma non disse altro. Sandro Pertini, anch’egli detenuto a Regina Coeli, ci ha lasciato un toccante ricordo del giovane prete di Ferentino: «incontrai una mattina don Morosini: usciva da un interrogatorio delle SS, il volto tumefatto, grondava sangue come Cristo dopo la flagellazione. Con le lacrime agli occhi gli espressi la mia solidarietà. Egli si sforzò di sorridermi e le labbra gli sanguinarono. Nei suoi occhi brillava una luce viva. La luce della sua fede». La Curia romana, in quei drammatici giorni della detenzione e della condanna di don Morosini, cercò di salvarlo. La Segreteria di Stato vaticana chiese alle autorità tedesche e all’ambasciatore presso la Santa Sede, Weizsacker, un atto di clemenza. Ma la speranza per un esito positivo dell’azione diplomatica del Vaticano venne meno di fronte alla intransigente posizione assunta da Hitler, contrario a qualsiasi atto di clemenza. Tuttavia, le pressioni della Santa Sede, evitarono l’inclusione di don Morosini tra coloro che il 23 marzo furono trasferiti alle Fosse Ardeatine per essere trucidati. Vi erano, invece, il suo fraterno amico Marcello Bucchi e il suo compagno di cella Epimenio Liberi. All’alba del 3 aprile lo raggiunse, nella cella 382 del 3° braccio politico di Regina Coeli, monsignor Cosimo Bonaldi, cappellano del carcere. Don Giuseppe comprese il senso di quella visita. Si confessò, celebrò la Messa e rivolgendosi a Bonaldi esclamò: «Che giornata splendida e come mi sento colmo di pace». Lo raggiunse anche monsignor Traglia, vicegerente di Roma, che lo aveva ordinato sacerdote e che volle stargli vicino, accompagnandolo sul camion che doveva condurlo al Forte Bravetta. Traglia ci ha lasciato, di questo drammatico momento, un ricordo vivo e intenso: «Le parole della preghiera si sgranavano lentamente per le vie di Roma. Giunti al Forte, mentre si facevano i preparativi per l’esecuzione, don Giuseppe mi si avvicinò. Passeggiammo un po’ sotto una tettoia. Si parlava della bellezza del Cielo, del premio del Signore». Sappiamo, sempre dalla testimonianza di monsignor Traglia, che i componenti del plotone di esecuzione, che erano italiani della Polizia dell’Africa italiana (PAI), non ebbero la forza di colpirlo a morte. Così ha descritto quel tragico momento: «Fu bendato. Gli fu letta la sentenza in nome del popolo italiano: ascoltò tranquillamente. L’ufficiale comandò il fuoco, ma fosse la trepidazione, fosse un po’ di timor reverentialis, non lo colpirono mortalmente: cadde in avanti, perse i sensi. Mi avvicinai e gli diedi rapidamente l’estrema unzione prima che l’ufficiale […] gli desse il colpo di grazia; ma anche questo non lo finì; e allora gli fu scaricato addosso un fucile mitragliatore». Ricordare oggi, la figura di don Giuseppe Morosini, significa rendere omaggio a un uomo, un cristiano, un italiano che ha testimoniato la sua coerenza e il suo coraggio. Siamo di fronte a una testimonianza che lascia un segno profondo, che supera i limiti del tempo e dello spazio e che resta monito severo non per una sola generazione. La scelta di don Morosini non si alimentò di ideologie o di motivazioni politiche. A spingerlo sulla strada della resistenza fu soprattutto il senso profondo di una cristianità vissuta al di là di qualsiasi interesse umano, che doveva portarlo a sostenere i pacifici, gli oltraggiati e gli oppressi, i perseguitati per amore della giustizia, come ci insegnano le beatitudini del Vangelo di Matteo.