Chissà se un giorno anche tanti sessantottini di casa nostra chiederanno pubblicamente scusa per aver contribuito ad alimentare in Occidente il mito di Mao Zedong (1893-1976). Dal 1949 alla sua morte, il «Grande timoniere» della Cina si guadagnò un posto tra i peggiori dittatori della storia. Il suo comunismo non fu meno brutale di quello di Stalin, ma per tanti, troppi anni, una cappa ideologica ha tenuto nascosti i suoi crimini.Solo di recente, grazie anche a coraggiose voci isolate come quelle di Harry Wu o della scrittrice Jung Chang, stanno venendo fuori le prime raccapriccianti testimonianze. Tali sono anche quelle raccolte da Gerolamo Fazzini nel libro appena uscito In catene per Cristo. Diari di martiri nella Cina di Mao (Editrice Missionaria Italiana, pp. 416, euro 20). Un ulteriore prezioso grimaldello per scoperchiare gli orrori perpetrati dal «Sole Rosso» non solo contro i dissidenti, ma soprattutto contro i cattolici e gli altri credenti che Mao considerava «nemici senza fucile».Tanto più che, come ricorda nella prefazione il direttore di AsiaNews, il missionario del Pime padre Bernardo Cervellera, le persecuzioni nell’indifferenza dei mass media continuano ancora oggi, «talvolta con meno crudeltà, ma sempre con un controllo totalitario sulla vita dei cristiani». Fazzini, che aveva già curato Il libro rosso dei martiri cinesi (San Paolo), attinge sempre a fonti inestimabili come quelle missionarie, ancora però scarsamente considerate. A tal punto che – scrive l’autore – «l’opinione pubblica, comprese le fasce più acculturate del mondo cattolico, ignora pressoché totalmente la portata del dramma delle vittime cattoliche della rivoluzione maoista».
Nel libro confluiscono dunque i racconti autobiografici di quattro testimoni esemplari: Gaetano Pollio, arcivescovo di Kaifeng, arrestato e mandato ai lavori forzati per sei mesi; Domenico Tang, gesuita, arcivescovo di Canton, detenuto per 22 anni, dato già per morto anche dalla sua famiglia; padre Leone Chan, 4 anni e mezzo di carcere, uno dei primi sacerdoti a far conoscere in Occidente l’incubo comunista cinese per essere riuscito a fuggire nel 1962; Giovanni Liao Shouji giovane catechista cinese anche egli internato per oltre 22 anni nei gulag cinesi, i laogai, terrificanti e tuttora attivi (almeno un migliaio secondo Harry Wu e la sua Laogai Research Foundation).Le loro testimonianze da sopravvissuti all’inferno maoista sono da brividi. Condannati con procedimenti farsa sulla base di crimini mai compiuti (padre Chan fu accusato persino di aver avvelenato l’acquedotto cittadino) furono costretti a umiliazioni di ogni genere come impastare sterco per far mattoni o pene atroci come fissare a lungo luci accecanti senza poter chiudere gli occhi. «I nostri pasti erano miseri: persino il guscio delle arachidi veniva tritato e dato come cibo. Mi accorsi presto, però, che quella alimentazione era causa di emorragie interne (…) Erbe selvatiche e scarse quantità di riso erano tutto il cibo che avevamo; con quella alimentazione dovevamo lavorare per dieci ore al giorno». In sottofondo le urla prolungate e strazianti dei condannati che sarebbero stati sepolti vivi.Queste e altre indicibili torture avvenivano «mentre in Europa, negli anni Sessanta – annota amaramente Fazzini – il verbo del maoismo veniva propagandato come il "volto buono" del comunismo, arruolando simpatizzanti anche in casa cattolica». Lo ricorda bene un decano dei missionari come padre Piero Gheddo: «Fino al 1951 le notizie della persecuzione del "Paese di mezzo" erano accolte con un certo distacco dall’opinione pubblica italiana e anche fra i cattolici non mancavano voci di comprensione nei confronti dei comunisti cinesi e di critica alle missioni».Così mentre buona parte della sinistra europea di quegli anni spacciava in Occidente il Libretto Rosso come simbolo di «libertà» ed «emancipazione», Mao portava avanti la sua mattanza. «È possibile affermare – denuncia il libro – che il "Sole rosso" sia responsabile direttamente o meno di crimini pari o addirittura superiori, per crudeltà, intensità e durata, a quelli di Stalin e dello stesso Hitler. Non è un’affermazione a effetto: un ex gerarca maoista riparato all’estero, Chen Yizi, afferma di aver visto un documento interno del Partito comunista che quantificava in 80 milioni il numero dei morti "per cause non naturali" nel periodo del "Grande balzo in avanti" (1958-61)».La grande Rivoluzione culturale lanciata da Mao di fatto puntava a trasformare il culto del Grande Timoniere nella nuova religione dei cinesi, declinando il verbo comunista dell’«uomo nuovo» senza Dio. Ma la ferocia verso i credenti non riuscì a piegare una fede più forte delle catene: anche oggi in Cina solo fra i cattolici ogni anno vengono battezzati circa 150 mila adulti.
Non si può però leggere questo libro senza rimanere scossi da questi testimoni indomiti che riuscirono a non perdersi d’animo anche negli abissi dell’orrore: «Dio mi fece la grazia di essere ottimista». Così da meravigliare i carcerieri medesimi: «Gli stessi poliziotti comunisti mi confessarono parecchie volte che ci ammiravano e che non riuscivano a spiegarsi come potevamo soffrire il carcere per un’idea e per la fedeltà al papa che viveva così lontano». Per nessuna ragione avrebbero tradito Gesù di Nazaret: «Le parole del Maestro mi risuonavano alla mente: "Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me"».Se Cristo non desse un senso alla vita, anche alle sue terribili sofferenze, come potevano sfidare quel supplizio senza paura? È l’interrogativo che lasciano oggi a un Occidente vuoto e debole spiritualmente. Perdonando e ringraziando come i primi cristiani nelle catacombe: «Il semplice fatto di essere vivo per raccontare (…) è in se stesso un fatto straordinario (…) Ma ancora più miracoloso è stato che io sia uscito da una simile esperienza di pressioni fisiche, mentali e morali, con la mia fede intatta (…) senza aver mai ceduto ai comunisti per debolezza o paura. Ringrazio Dio che non mi ha permesso di tradirlo mai; ho combattuto la buona battaglia e mantenuto la fede».