Un libro sull’Irlanda che rinunci agli stereotipi sul verde e indichi nella mistura di «marrone e kaki» la tonalità dominante dell’isola è già di per sé un colpo di scena. Se poi l’autore è il formidabile Gkc, al secolo Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), l’occasione si fa davvero ghiotta. Scrittore popolarissimo quanto infaticabile, l’autore dell’
Uomo che fu Giovedì è da tempo oggetto di una capillare riscoperta nel nostro Paese, specie per quanto riguarda l’esuberante produzione saggistica. Mancavano tuttavia all’appello queste sue
Impressioni irlandesi, che Medusa pubblica ora nella traduzione di Cristiano Casalini e con una puntuale introduzione dell’esperto Gregory Dowling (pagine 142, euro 16:). Si tratta, se possibile, di un libro ancora più eccentrico rispetto allo standard chestertoniano e ancora più idiosincratico rispetto alla media. Per la sua incerta collocazione fra reportage giornalistico ed elaborazione letteraria, intanto, circostanza che permette a Chesterton di uscirsene con uno dei suoi memorabili aforismi: «L’unica scusa valida per fare letteratura è rendere nuove le cose; e la principale iattura del giornalismo è renderle vecchie». A colpire di più, però, è l’intreccio di circostanze che, negli ultimi mesi del 1918, conducono Chesterton a Dublino e dintorni. La Prima guerra mondiale si è già avviata alla conclusione, ma l’opinione pubblica non può esserne consapevole. La prospettiva di un prolungarsi del conflitto renderebbe auspicabile l’intervento militare dell’Irlanda, le cui simpatie al momento sono rivolte più al nemico germanico che all’Inghilterra. Solo due anni prima, nella celebre «Pasqua di Sangue» del 1916, l’isola è stata teatro di un’insurrezione repubblicana, soffocata senza esitazioni dall’esercito britannico. Il motivo per cui Chesterton si mette in viaggio è proprio questo: cercare di convincere gli irlandesi a non rispondere agli errori di Londra con un errore ancora più grave. Lo fa mettendo in gioco tutto il suo prestigio di intellettuale e, nella fattispecie, di conferenziere e ben sapendo che, ogni volta che gli capiterà di esprimere una posizione favorevole agli abitanti dell’isola, si sentirà chiedere se per caso non abbia un po’ di sangue irlandese nelle vene. «Ho un po’ di sangue scozzese; e un po’ di sangue che, a giudicare da un nome nella mia famiglia, doveva un tempo essere stato francese. Ma la sua parte predominante è totalmente inglese, dell’East Anglia, credo», replica lo scrittore, profondamente persuaso del fatto che un’eventuale coscrizione obbligatoria non farebbe altro che peggiorare i rapporti con la Gran Bretagna. Inglesi e irlandesi, insomma, devono cercare di comprendere che cosa li avvicina gli uni agli altri e, insieme, che cosa li allontana irrimediabilmente rispetto al «prussianesimo». Chesterton non nasconde che, dal suo punto di vista, la responsabilità della deriva imperialista della Germania va ascritta alla stessa Inghilterra, che nel corso del XIX secolo aveva pensato così di contrastare la sfera d’influenza francese. Come sempre, però, più dell’analisi politica conta la riflessione fulminante: «L’imperialismo non è una pazzia del patriottismo – mette in guardia Chesterton –; è semplicemente un’illusione del cosmopolitismo». Ed è proprio nel segno di un nazionalismo sanamente antiimperialista che viene riletta la richiesta d’indipendenza da parte dell’Irlanda. Diverse ragioni inducono Chesterton a parteggiare spontaneamente per le sorti di Dublino. Sono, almeno in parte, motivazioni religiose. Lo scrittore è da tempo impegnato nella sua marcia di avvicinamento al cattolicesimo, che ha già avuto modo di esprimersi nei numerosi racconti di cui è protagonista il prete-detective padre Brown e che sarà sancita dalla conversione nel 1922. Ma non è una posizione confessionale, anche perché per Chesterton la religione non è «un argomento». Il suo interesse va all’Irlanda in quanto Paese radicato nella tradizione contadina e dunque più vicino alla realtà. Il senso della famiglia, il valore schiettamente cristiano del nome di battesimo (
christian name in inglese, da cui il gioco di parole), la disponibilità ad affrontare le questioni economiche in chiave simbolica: questi e altri sono gli aspetti che inducono Chesterton a considerare l’Irlanda come una sorta di terra promessa per il distributismo, la teoria per cui solo una maggior distribuzione della proprietà privata condurrebbe al costituirsi di una società più giusta. In nome di questo Chesterton è perfino disposto a soprassedere sulle sfumature di paganesimo presenti nell’ambito della Rinascita celtica, che in quel periodo gode di grande prestigio grazie all’opera di William Butler Yeats. La questione irlandese, secondo lui, va riconosciuta anzitutto come
question, e cioè come domanda. Anziché imporre la loro soluzione, che in sostanza si riduce all’assoggettamento dell’isola alla Corona, gli inglesi farebbero meglio ad ascoltare la «risposta irlandese», per scomoda che possa suonare. «Non è semplicemente il fatto che l’Inghilterra non dovrebbe governare l’Irlanda, ma che l’Inghilterra non può – sintetizza Chesterton con il suo solito talento –. Non è il fatto che gli inglesi non possono comandare agli irlandesi, ma che i mercanti non possono governare i contadini». Il che, a ben pensarci, vale anche a un secolo di distanza, e anche al di fuori dell’Irlanda.