La Bibbia non è un testo di filosofia; analogamente la filosofia non è un semplice commento della parola rivelata. È bene ribadire fin da subito queste banali verità per non cadere in quella trappola, in un certo senso sempre aperta, all’interno della quale, da una parte, si finisce per interpretare la Bibbia come il deposito di una sorta di "filosofia popolare" o "primitiva" le cui oscure narrazioni attendono la luce di quella razionalità filosofica che sarebbe la sola ad essere in grado di chiarirle definitivamente, magari per dissolverle del tutto, e, d’altra parte, si finisce per considerare il discorso filosofico sempre e solo come un mero, e in fondo accessorio, commento di una verità la cui luce risplenderebbe comunque altrove.Per non correre il rischio di simili semplificazioni, che non raramente nel corso della storia hanno innescato quel gioco che fa letteralmente impazzire i bambini che vogliono sapere ad ogni consto "chi è il più forte?" o "chi è arrivato prima?", conviene sottolineare con decisione e salda tranquillità la distinzione tra le parole della Bibbia e quelle della filosofia. A tale riguardo, in un suo affascinante studio, Sergej Averincev afferma: «Non si può affermare che il Libro di Giobbe ceda in profondità ai più celebrati prodotti della filosofia greca (su quale bilancia potremmo verificare tale giudizio?); e tuttavia il Libro di Giobbe può essere tutto ciò che si vuole - "saggezza", forse, "filosofeggiare", ma in nessun caso filosofia. Tutto il pensiero degli egizi, dei babilonesi e dei giudei nelle sue massime estrinsecazioni non è filosofia, poiché l’oggetto di questo pensiero non è l’"essere" ma la "vita", non l’"essenza" ma l’esistenza, ed esso non opera per "categorie", ma attraverso gli innumerevoli simboli dell’autosensazione-nel-mondo dell’uomo (...) Al contrario i greci (...) estrassero dal flusso vitale dei fenomeni l’"essenza" stabile e uguale a se stessa (...) e cominciarono a manipolarla intellettualmente, dando così avvio alla filosofia. Essi liberarono e diedero un’esistenza autonoma al pensiero teorico (...) [che] nelle loro mani si trasformò per la prima volta da pensiero-nel-mondo in pensiero-sul-mondo» (Atene e Gerusalemme, Donzelli 1994, p. 14).Tuttavia, una volta ribadita questa distinzione e liberatisi dall’ansia della gara, ci si può concedere il lusso di qualche riflessione approfondendo così il senso di una distanza che forse cela al suo interno anche la sorpresa di una vicinanza. Propongo a questo riguardo di sostituire la coppia Bibbia-Filosofia con la coppia logos biblico-logos filosofico; tale sostituzione permettere di porre l’accento sul tema della parola, del logos come parola detta/scritta, ascoltata/letta, infine compresa/attuata. Partiamo dalla Bibbia. Quest’ultima è parola di Dio, è la parola parlante di Dio. Che cosa può significare che Dio parli all’uomo? A tale interrogativo si può rispondere almeno in due modi: Dio per accostarsi agli uomini deve parlare la loro lingua e di conseguenza la sua scelta si impone come una via obbligata: Egli, avendo deciso di comunicare con gli uomini, non può far altro che parlare il loro linguaggio. All’interno di tale interpretazione Dio si "adegua" o si "piega" ad una parola che tuttavia, in quanto tale, resta essenzialmente qualcosa di esterno o di estraneo: Dio, per entrare nella storia ed "elevare" l’uomo, deve "scendere" ed accettare di parlare una parola, quella umana, che di conseguenza si configura come lo "strumento" di una salvezza rispetto alla quale quella parola si imporrebbe, per l’appunto, unicamente come una "via" o come un "mezzo". All’interno dell’economia generale della salvezza la forma di tale "parola parlante" - ad essere rigorosi si dovrebbe dire: la carne di questa parola e la parola di questa carne - non avrebbe alcun vero peso, alcuna autentica dignità, sarebbe per l’appunto solo un espediente, un mero strumento privo, in quanto tale, di un suo valore autonomo. Primato, dunque, del contenuto su di una forma, quella dell’interlocuzione, che in quanto tale non rivelerebbe nulla di essenziale.Si può tuttavia tentare anche un’altra interpretazione e cogliere nella scelta di Dio per la parola umana una sorta di sorprendente ed inimmaginabile esaltazione dell’umano stesso, come se in una simile scelta si celasse la sollecitazione o la profezia a riconoscere nella "forma" di questa "parola parlante" qualcosa che in sé non è mai indifferente o estraneo al "contenuto" stesso della salvezza ch’essa annuncia. Letta secondo questa prospettiva la scelta di Dio per il linguaggio degli uomini, la sua incarnazione nelle parole degli uomini, non appare più come il segno di un "adeguamento", ma come l’evidenza di quella "esaltazione" che, nel momento stesso in cui interpella e sollecita l’uomo a rispondere, anche lo abilita, abilita ogni singolo uomo, a credere nel valore decisivo delle sue parole, della sua risposta, delle sue letture, delle sue interpretazioni e più in generale della sua stessa personale ed unica esistenza.
In tal senso si può forse affermare che se Dio parla la parola degli uomini è perché questa parola è in sé degna di Dio, e lo è a tal punto da far parte del disegno stesso ch’Egli ha sull’intera creazione. Parlando all’uomo, rivolgendosi all’uomo con le parole dell’uomo, Dio, dunque, non solo gli trasmette dei contenuti, in particolare delle prescrizioni, ma lo coinvolge come attore all’interno dei contenuti stessi che trasmette; più correttamente si deve affermare: Dio, attraverso la sua parola, non si limita mai a trasmettere o a trasferire dei contenuti poiché in verità li comunica, "tradendo" così, proprio attraverso la sua parola comunicante e la sua comunicazione parlante, un’idea di uomo che non può in alcun modo essere risolta in quella di un mero ricevente, attualizzatore, esecutore.Insomma, se Dio parla, allora l’uomo deve rispondere, e una risposta non è mai una semplice reazione; lo ripeto: la parola, il logos, non solo introduce-a ma è essa stessa la scena all’interno della quale si sollecita una risposta e di conseguenza si chiama alla responsabilità. La Bibbia, in effetti, attende una lettura che non può essere in alcun modo concepita come una semplice decodifica di un ordine da eseguire; di fronte ai suo versetti non si può leggere senza anche ascoltare e non si può veramente ascoltare senza anche interpretare, e questi sono gesti che il soggetto non può mai compiere da solo e dall’esterno, come mantenendosi a distanza: «La Bibbia- afferma Emmanuel Lévinas - domanda giustizia e discussione!» (Nell’ora delle nazioni, Jaca Book 2000, p. 154). Siamo così già nei pressi dell’altra parola, di quella filosofica.Anche intorno alla natura della filosofia probabilmente non si finirà mai di interrogarsi, tuttavia a me sembra che una sua buona descrizione, se non proprio definizione, possa essere la seguente: una discussione pubblica tra pari intorno all’intero. Così come una risposta non è una reazione, la discussione non è un dibattito; nel suo parlare, infatti, non ci si limita a contrapporre tesi diversi al fine di vedere quali tra di esse "batte" le altre, poiché al centro del confronto c’è sempre quella ricerca della verità di cui nessuno degli interlocutori può seriamente concepirsi come un padrone. La filosofia, quando è all’altezza del suo nome, conserva al fondo della sua memoria la traccia indelebile di quel carattere che Jean-Pierre Vernant ha saputo riconoscere nel suo nascere: «Lo sviluppo del pensiero morale e della riflessione politica viene perseguito su questa linea: ai rapporti di forza si cercherà di sostituire relazioni di tipo "razionale", stabilendo in tutti i campi una regolamentazione fondata sulla misura e mirando a proporzionare, a "pareggiare" i vari tipi di scambio che formano il tessuto della vita sociale» (Le origini del pensiero greco, Editori Riuniti 1976, p. 79). In effetti è questo uno dei doni più preziosi che la filosofia ha consegnato al genere umano: essa ha compreso che per l’uomo avere ragione significa essenzialmente rendere ragione, o anche: che nessuno può essere sicuro di avere ragione se non sa rendere ragione all’altro. La discussione, atto politico per eccellenza, è pertanto sempre un atto di giustizia. Seguendo certamente strade diverse, la Bibbia e la filosofia non si stancano di ripeterlo.