lunedì 6 gennaio 2014
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In questo primo scorcio di secolo ci sono alcune questioni ambientali (cambiamento climatico, buco dell’ozono, esaurimento risorse) e sociali (spostamenti di enormi masse di popolazioni, emigrazione, fuga da disastri naturali e da emergenze politiche) di fronte a cui gli Stati come siamo abituati a conoscerli dalla loro origine non hanno alcuna o quasi alcuna capacità di incidere. Sembra che la forma nazione oggi non riesca se non a riaffermare interessi a tal punto di parte da diventare controproducenti per le nazioni stesse. La globalizzazione finanziaria e delle merci, la forma presa dal sistema bancario e la deriva della dislocazione produttiva rendono la forma nazione obsoleta. Nonostante ciò mai come adesso nell’agone internazionale è in ripresa una forma di antagonismo, di parcellizzazione degli interessi, di incapacità di andare oltre l’idea di frontiera e di confine. La stessa Europa che potrebbe rappresentare per il resto del mondo una speranza di pace e di cooperazione (non per nulla Il Nobel le è stato attribuito "sulla fiducia") invece non riesce a scrollarsi di dosso una logica "ombelicale" e di contrapposizione tra interessi nazionali. Spesso queste incapacità, retaggio della stessa concezione che sta alla base della forma nazionale, vengono pagate a durissimo prezzo dalle popolazioni, in caso di emergenze climatiche ed ambientali, ma anche di crisi economiche e sociali. In questo paesaggio emergono delle istituzioni che per storia o per fondazione anche recente concepiscono la propria azione come transnazionale e quindi riescono ad occuparsi dell’umanità e non degli interessi di una singola popolazione. È interessante che tra queste istituzioni vi siano organizzazioni non governative come Amnesty International, Medici senza Frontiere, Greenpeace, ma anche entità storiche come la Chiesa Cattolica o altre Chiese e movimenti religiosi. Il discorso che il Papa ha fatto durante la sua visita a Lampedusa era impressionante da questo punto di vista. In quell’occasione si è presentato come capo di una organizzazione a cui sta a cuore la vita di tutti gli esseri umani e che ritiene questo valore ad di sopra di qualunque questione di confine o di appartenenza etnica, religiosa, nazionale. È questo il motivo per cui, se si tratta di questioni che riguardano il futuro dell’umanità, solo coloro che non sono legati agli interessi di una singola nazione stanno diventando sempre più credibili per le vaste masse che vedono preoccupate la situazione mondiale. È come se il mondo, sempre più collegato e interdipendente, non riesca ad esprimere istituzioni allo stesso livello. I problemi sono transnazionali, le soluzioni no. Prendiamo una questione che sta diventando sempre più rilevante anche se sembra tanto lontana da noi. La corsa all’Artico che vedrà sempre più impegnate diverse grandi potenze nel cercare di sfruttare l’ultima Thule rappresentata da questo continente gelato che fino a qualche decennio fa sembrava solo un luogo inospitale e remoto. Oggi l’Artico viene considerato l’ultima speranza per i Paesi che basano la propria ricchezza sul petrolio. Tra questi ci sono gli Stati Uniti, anche se negli ultimi tempi i nuovi depositi di gas scoperti in patria e nuovi metodi di estrazione tra cui il fracking vanno verso uno sganciamento dal petrolio. C’è l’Inghilterra e ovviamente c’è la Russia che è partita per prima nella corsa. Soprattutto perché l’economia russa si basa sull’esportazione di combustibili fossili, dal gas, al petrolio, al carbone.Il motivo che spinge la Russia a estrarre dall’Artico è la previsione di declino della produzione di petrolio prevista per il 2020. La piattaforma russa della Gazprom nell’Artico, costata 4 miliardi di dollari, andrà in produzione nel 2014 ed è la prima che lo fa in un’area dove il mare è ghiacciato per due terzi dell’anno. I rischi ambientali sono enormi: nessun piano di emergenza è stato reso pubblico e delle poche cose che si sanno è che una eventuale base operativa per un incidente sarebbe a Murmansk , a 1000 chilometri a sud, e quindi tanto lontana da rendere difficile ogni intervento, soprattutto con mare mosso. Le normali tecniche per intervenire in caso di disastro, con solventi o altro non servono a quelle temperature. 3000 miglia di coste sono a rischio per un incidente del tipo di quello avvenuto nel 2010 per la piattaforma Bp Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. La Shell, che voleva aprire una piattaforma in Alaska nel 2012 l’ha "persa" in una tempesta che le è costata un miliardo di dollari. Il Financial Times ha rimproverato la Shell di non avere considerato il rischio e soprattutto di continuare a pensare che "valga la candela" (nel senso che oggi gli investimenti per cercare nuovi giacimenti non vengono ricompensati se non dopo decenni). Recentemente l’Ipcc, la Commissione Intergovernativa sui cambiamenti climatici dell’Onu ha rilasciato un Quinto Rapporto che conferma come i cambiamenti climatici siano responsabilità umana e primariamente per l’uso delle fonti fossili. Ha anche affermato che per evitare conseguenze catastrofiche sul clima i ¾ delle risorse fossili restanti dovrebbero rimanere sotto terra. Quindi l’Artico è l’ultima Thule della speranza petrolifera, ma è anche il luogo in cui si gioca il destino della Terra tutta. Il problema è che i singoli interessi nazionali sembrano prevalere, al punto tale che anche una protesta pacifica ed in acque internazionali come quella di Greenpeace ha sortito l’effetto di una reazione furibonda di abbordaggi e arresti (e fortunatamente successivi rilasci) dichiarata illegale dall’Organismo delle Nazioni Unite che regola il diritto del mare (a cui la Russia afferisce, ma a cui dice di non volere obbedire). La tragedia è che siamo di fronte a due logiche diverse. Una vecchia e disperata, che vuole le ultime gocce di petrolio del Pianeta, ed una ai suoi albori che vorrebbe che si ragionasse pensando ad un bene comune "transnazionale" nell’ottica di una umanità che voglia salvarsi e salvare il pianeta. È una partita che si gioca nei prossimi mesi e anni, e in cui la speranza sta dalla parte di chi voglia porsi al di sopra delle frontiere e delle logiche di contrapposizione. Mai come adesso il mondo è un Titanic avviato verso un iceberg. Solo un miracolo ci può salvare, ma potremmo essere in grado di provocarlo.
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