Domani, 24 aprile, ricorrono i 99 anni del genocidio armeno. Per l’occasione la Delegazione pontificale della Chiesa armena apostolica d’Italia invita a una Santa Messa che avrà luogo nella basilica di Sant’Ambrogio a Milano alle ore 10,30. Per Guerini e associati esce poi in libreria il volume dello storico Agop Manoukian Presenza armena in Italia. 1915- 2000
, in uscita domani (pagine 380, euro 28,50; con una presentazione di Baykar Sivazilyan). Il libro racconta il frammento italiano della grande diaspora armena: dopo il 1915 si assiste infatti all’avvio di una vera e propria presenza organizzata degli armeni nell’Italia moderna. L’autore è nato a Como nel 1938 da madre italiana e da padre armeno, quest’ultimo scampato da bambino con la famiglia ai massacri di Adana, in Cilicia, e arrivato in Italia nel 1925. Dal volume qui anticipiamo alcuni passi dell’ultimo capitolo.Che cosa si sa in Italia dell’Armenia e degli armeni all’inizio del Novecento? Per buona parte del Settecento, ma soprattutto nell’Ottocento, la cultura e la storia armena sono state vivamente presenti in Italia grazie all’opera di Mechitar (cui si deve la costruzione del monastero di San Lazzaro degli Armeni a Venezia nel 1715, ndr) e a un piccolo gruppo di monaci che nell’isola di San Lazzaro sono riusciti a custodire, sviluppare e testimoniare l’esistenza di un ricco patrimonio linguistico, letterario e religioso armeno. Nonostante questa singolare presenza, se si escludono piccole minoranze di persone colte, per la maggioranza degli italiani la conoscenza non doveva essere molto dissimile dalla sommaria descrizione fornita in quegli anni dal
Corriere della Sera: commercianti, importatori di stoffe, stoviglie, tappeti, spezie, materie coloranti, ed esportatori di cereali e granaglie. Un profilo quindi prevalentemente basato su prerogative individuali legate alla laboriosità e alla capacita di ciascun armeno di farsi apprezzare nel commercio sia per l’abilità che per la conoscenza delle lingue.Con l’entrata in guerra dell’Italia contro la Turchia, nel 1915, le autorità governative italiane devono censire e classificare tutti gli stranieri presenti sul territorio per accertare se la loro permanenza sul suolo italiano sia compatibile con lo stato di guerra. Una disposizione di ordine pubblico prescrive per gli stranieri, sudditi di governi nemici, o l’espulsione o forti limitazioni nella libertà di operare. La maggior parte degli armeni che si trovano in Italia sono sudditi dell’Impero ottomano: vanno quindi controllati, sorvegliati e, se necessario, allontanati. È di fronte a quest’evenienza che il governo italiano deve sciogliere un dilemma e ha l’urgenza di comprendere chi siano veramente e che orientamenti abbiano gli armeni. La classificazione burocratico-militare che porterebbe a definirli come nemici si sovrappone a una di segno opposto, dettata dalle notizie sempre più preoccupanti sulle violenze che gli armeni stanno subendo in tutti i villaggi della Turchia ottomana. Gli organi di stampa italiani che ne danno notizia parlano di un’Armenia martire e ne evocano, in poche righe, la storia millenaria. È proprio di fronte a questa emergente ambivalenza che si dimostra utile la costituzione del Comitato armeno d’Italia, che tra le sue prerogative ha quella di sostenere e illustrare le ragioni degli armeni nei confronti delle pubbliche autorità.Funzione che si promuove nei confronti del paese ospite e in particolare di chi nell’Italia di quegli anni patisce le ferite della guerra. Tra i gesti più significativi il finanziamento di un reparto armeno nell’Ospedale Principessa Jolanda di Milano. Con il contributo di tutti, armeni ricchi e meno ricchi, ciò che si vuole trasmettere e testimoniare e l’immagine di un popolo sensibile e generoso. A queste iniziative di parte armena si affianca in quegli anni l’attività di alcune figure di rilievo che per posizione sociale e politica e per loro intrinseca sensibilità sono disponibili a comprendere la precaria situazione degli armeni sia in Italia che nel consesso delle nazioni. Fa parte di questo piccolo gruppo di amici degli armeni anche Giacomo Gorrini che, console a Trebisonda fino alla metà del 1915, assiste di persona al terribile eccidio e all’evacuazione di tutta la popolazione armena della regione; nell’agosto di quell’anno rilascia un’importante intervista al
Messaggero che costituisce tuttora una preziosa e inoppugnabile testimonianza di ciò che stava avvenendo in Anatolia. Sarà proprio questo illustre diplomatico che con l’appoggio e i suggerimenti di un’altra figura armena di rilievo che da qualche anno risiede in Italia, l’architetto Leon Gurekian, verrà incaricato dal governo italiano di stendere un memoriale sulla questione armena da portare ai tavoli delle negoziazioni di pace per il trattato di Sevres.Con l’avvento del fascismo lo scenario cambia: alcuni intellettuali che avevano prestato ascolto ai problemi degli armeni e manifestato solidarietà nei loro confronti sono costretti al silenzio o espatriano. L’interlocutore a cui ora il Comitato deve rispondere e rivolgersi, anche per avere il permesso di associazione, diviene il Partito Nazionale Fascista attraverso i propri esponenti e i propri intellettuali organici. Nel corso del ventennio fascista avviene pero un episodio insolito. Qualcosa che sembra sfuggire a quella rappresentazione guidata della storia armena, presente ad esempio nell’Enciclopedia Treccani dove temi come l’annientamento del popolo armeno e le specifiche responsabilità dei Giovani Turchi sono così sfumati da essere assimilabili a quello che ultimamente viene indicato come negazionismo. Il riferimento è alla sorprendente pubblicazione tra il 1934 e il 1935 di ben due libri che danno della catastrofe armena una visione autonoma e originale: il primo è la traduzione di un testo scritto del giornalista francese Henry Barby: una sorta di reportage sui massacri in atto in Anatolia, pubblicato a Parigi nel 1916; il secondo e il romanzo scritto in tedesco nel 1933 dall’ebreo Franz Werfel, opera della quale il regime nazista vieta la distribuzione a soli pochi mesi dall’uscita. Un libro ristampato numerose volte, che più di ogni altro lascerà nei lettori italiani una significativa traccia della vicenda armena. Per decenni saranno proprio
I quaranta giorni del Mussa Dagh a costituire per molti italiani l’unico riferimento al mondo armeno. (...)Nell’Italia repubblicana, ormai dotata di una costituzione democratica, la presenza armena in Italia sotto molti aspetti si normalizza: nessuna restrizione nella libertà di associazione e nessun problema per ottenere il riconoscimento della personalità giuridica per le due maggiori compagini associative, Comitato e Comunità dei fedeli. (...)Per venire ai nostri tempi, nell’ultimo decennio del secolo si ha uno straordinario fiorire di pubblicistica sul genocidio. Non solo alla data del 24 aprile di ogni anno quotidiani e periodici riservano spazio per illustrare e ricordare il genocidio armeno; ma nelle librerie lo scaffale sulle tragedie del secolo si arricchisce in continuazione di nuovi titoli: libri di memorie, romanzi, traduzioni di studi storici sul genocidio armeno e infine, grande novità dei primissimi anni del XXI secolo, la pubblicazione dei primi testi sul genocidio interamente scritti da autori italiani, o da armeni da lunga data residenti in Italia:
La masseria delle allodole di Antonia Arslan e
Il genocidio degli armeni di Marcello Flores. Due testi che rappresentano anche i due modi estremi con cui il genocidio può essere rappresentato: il primo è un romanzo che racconta gli eventi del 1915 attraverso le singolari vicende di una parentela che vive divisa tra l’Anatolia e l’Italia; il secondo è un documentato saggio storico che ricostruisce le vicende dei trent’anni in cui si consuma la catastrofe armena. Per il successo che riscuotono tra i lettori, entrambi, in modo diverso, sanciscono una sorta di significativa omologazione italiana del genocidio armeno: una in chiave popolare, l’altra in chiave dotta.