«Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale». Credo di non esagerare nel definire una delle più alte pagine spirituali del nostro tempo il "testamento" di Annalena Tonelli, volontaria laica di Forlì uccisa in Somalia all’età di 60 anni, il 3 ottobre 2003. Ora, a dieci esatti anni dalla morte, le Edizioni Dehoniane di Bologna ci mettono in mano un’altra preziosa raccolta di scritti di questo straordinario personaggio, un’autentica «santa anonima» di oggi. Si tratta di
Lettere dal Kenya 1969-1985 (pp. 368, euro 15), relative, dunque, alla lunga stagione missionaria di questa donna che diceva di sé: «Vivo a servizio senza un nome, senza la sicurezza di un ordine religioso, senza appartenere a nessuna organizzazione, senza uno stipendio». Leggendole è possibile ricostruire, passo dopo passo, l’immersione di Annalena Tonelli nella realtà africana, affascinante e contraddittoria. Nel marzo 1969, da Chinga, scrive al fratello Bruno: «Mi dispiace che dalle mie lettere tu ricavi l’impressione che qui l’ambiente sia poetico, quasi di sogno: capanne di fango, stelle basse, silenzi profondissimi, spazi sconfinati, fiori coloratissimi, verdi intensissimi, terra infuocata…. Sì, tutto questo è vero, ma qui non c’è nessuna poesia, nessunissima, se tu ti vuoi impegnate fino in fondo a calarti in mezzo a questa gente, a diventare il lievito dentro la pasta, a sforzati di vivere "come loro"». E più oltre: «Tutto vero e anche molto bello quello che tu mi dici sulla natura: Dio lì è sicuramente presente (…). Ma che dire del dolore in cui tutti siamo immersi, molti di noi fino ad averne le carni o l’anima lacerate?». Di lì a soli due anni, nel 1971, scriverà: «Il problema è che qui in Africa si può venire anche solo per gli uomini, ma qui in Africa si rimane solo per Dio. Se non c’è Dio, di qui si scappa a gambe levate finché si è ancora in tempo o qui si muore nel senso più vero della parola». A distanza di trent’anni, lei che si firmava «Annalena di Dio» confermerà nel "testamento" quanto professato da giovane: «La mia vita ha conosciuto tanti pericoli, ho rischiato la morte tante volte. Sono stata per anni nel mezzo della guerra. Ho esperimentato nella mia carne la cattiveria dell’uomo, la sua crudeltà, la sua iniquità. E ne sono uscita con una convinzione incrollabile che ciò che conta è solo amare». Quando Annalena parte per l’Africa ha 26 anni e una laurea in Giurisprudenza, conseguita per accontentare la famiglia (lei aveva già fatto altri progetti, in quel momento sognava l’India). Arrivata in Kenya, passa 17 anni tra la popolazione nomade del Nord-est del Paese, impegnata prima nel lavoro con i disabili (fisici e psichici) e poi incaricata al governo locale di guidare un progetto pilota per la prevenzione e cura della tubercolosi a Wajir: nel 1978 presenterà i risultati della sua esperienza al Congresso mondiale sulla Tbc a Nairobi. Il 5 agosto 1985 la sua esperienza in Kenya si deve necessariamente concludere. Dopo aver subito vari attentati, viene espulsa come indesiderata dalle autorità per aver denunciato i massacri di Wagalla, dove vennero uccise un migliaio di persone. Una tragedia di cui c’è una traccia evidentissima nelle missive di Annalena (vedi lettera in questa pagina). Ma le pagine inviate dal Kenya sono molto più che un diario personale: l’afflato spirituale che vi si respira è sempre intenso, anche quando affiora da piccoli aneddoti di vita quotidiana. Talora Annalena espone riflessioni amare (mai pessimistiche), ma soprattutto condivide con gli amici i sentimenti più profondi di una donna che di sé ha detto: «Sono non sposata perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per Dio».