Non è mai anacronistico tornare a discutere di Elio Vittorini (1908-1966), nonostante le tante pagine scritte intorno alla sua figura e all’opera, nonostante il mezzo secolo che ci separa dalla morte, avvenuta il 12 febbraio di cinquant’anni fa. Più si frappone tempo tra la sua e la nostra stagione, più la testimonianza che proviene dai suoi libri, dal lavoro editoriale, dalla militanza intellettuale, non conosce zone di polvere, anzi appare contemporanea a noi stessi, dotata di quella limpidezza com’è soltanto nella lezione dei maestri. Vittorini è stato un maestro per tanti scrittori che si sono formati all’ombra della sue ali. Ha esercitato il magistero stilistico e politico, letterario e civile, dall’epoca del “Politecnico” (1945-1947) fino all’epilogo del “menabò” (1959-1967), senza mai smettere di credere nelle armi della cultura, che è innanzitutto epifania di libertà, vocazione a cambiare il mondo e a narrare il cambiamento attraverso la carta e l’inchiostro che si accumulano sui ripiani delle biblioteche. Progetto e utopia, come individuò Calvino sul “menabò 10”, nel numero dedicato proprio a Vittorini: due termini chiave di un medesimo convincimento teorico, una formula programmatica che conosce il senso di futuro. L’Italia che abbandonava la guerra e si avviava a passi veloci sulle strade del progresso tecnologico aveva desiderio di raccontare e di raccontarsi, capire cosa stesse cambiando nel suo codice identitario. Era una nazione che aveva voltato pagina, voleva dar conto di ciò che era memoria e speranza, coltivava il sogno di diventare finalmente una nazione occidentale lasciandosi avvolgere dal vento di quella modernità che dagli anni Trenta in avanti aveva trasformato il volto di una penisola, ma anche suscitato infinite perplessità proprio in chi, scrittori e intellettuali, avrebbe dovuto guardare con interesse al mutamento. Avrebbe dovuto, appunto. Strano e contraddittorio destino il nostro: un popolo che stava scoprendo i vantaggi del benessere vedeva demonizzare i segni del cambiamento, a partire dalle fabbriche e dagli oggetti in esse prodotti (automobili, elettrodomestici) che presto sarebbero diventati il paradigma del boom economico. Da una parte c’erano gli ex contadini che avevano fretta di dimenticare la terra e volevano indossare la tuta blu, sentirsi realizzati possedendo un frigorifero, sognare le vacanze sulla riviera romagnola e abbracciare i comportamenti della civiltà di massa; dall’altra parte c’erano alcuni intellettuali che pronunciavano discorsi apocalittici, condannavano le scellerate abitudini di credere che il progresso avrebbe redento il dolore degli uomini. Il “mondo offeso” non poteva non rimanere offeso. In questo discrimine tra modernità e antimodernità, che sta a paradigma dell’intero Novecento, si è infilato Vittorini con il suo lavoro di scrittore e organizzatore culturale ed è stato uno degli osservatori più attenti, ha ascoltato il trasfondersi di memorie in speranze, lo ha disseminato dentro i suoi romanzi, lo ha cercato disperatamente nei testi degli altri. Pensiamo alla stagione dei Gettoni, la celebre collana che egli ha diretto tra il 1951 e il 1958 per Einaudi. Cinquanta titoli pubblicati, quaranta autori portati al battesimo letterario, fra cui la generazione che meglio ha saputo raccontare l’Italia del dopoguerra: Arpino, Brignetti, Calvino, Cassola, Fenoglio, Ortese, Ottieri, Rigoni Stern, Sciascia, Testori, Tobino. Una grande scuo- la di narratori a cui il direttore della collana guardava con attenzione, ma anche con preoccupazione. Erano gli anni in cui imperversava la cosiddetta letteratura dell’impegno ed era ancora viva l’esigenza di manifestare gli orrori della guerra, ricordare al pubblico la miseria materiale e morale. Vittorini guardava già oltre, era perseguito da quello che Edoardo Esposito ha chiamato il «demone dell’anticipazione», cercava nei dattiloscritti che gli sottoponevano il codice della modernità. Purtroppo non sempre riusciva a trovarlo. Il più delle volte il linguaggio del tempo a venire si confondeva con una scrittura di maniera, intrappolata da eccessivo ripensamento ideologico, preda di rancori sociali. Non a caso invitava a riscrivere la realtà invece che a fotografarla, ritradurla in un nuovo lessico, aprirsi a ciò che giungeva dalla “civiltà delle macchine” per dare alla pagina letteraria non più la fisionomia del bell’esercizio, ma uno statuto politico, un discorso che edificasse un’idea di città. La letteratura, più che esibizione di bravura, la considerava uno strumento per intercettare e comprendere le impronte del nuovo. I libri, le riviste, le collane editoriali, perfino le tipografie possono diventare le impalcature che reggono il mondo. Soprattutto rappresentano una sorta di piazza ideale, dove si danno appuntamento gli uomini che intendono avviare il dialogo, innalzare grattacieli o cattedrali, cercare le coordinate per realizzare il bene comune. Gli illuministi lo definivano bonheur. Anche la rivista che prendeva nome dal foglio di Carlo Cattaneo, “Politecnico” appunto, è una specie di piazza. Lo scrive Vittorini nel secondo editoriale, il 6 ottobre 1945: «Noi cerchiamo di portare le varie tecniche ai concreti motivi umani da cui hanno avuto origine: in funzione cioè di quanto in ogni tecnica è legato all’unico grande problema della felicità umana». Letteratura, filosofia, arte, fotografia, economia, sociologia, intanto potranno avere senso se saranno in grado di raccordarsi fra loro. Siamo alla formulabase della cultura politecnica, siamo nel terreno delle sperimentazioni, quello dove la cultura – per riprendere ancora un passaggio di questo editoriale – si presenta «come ricerca della verità e non come predicazione di una verità ». Queste parole distano settant’anni da noi eppure basterebbero per dare il senso di un’esperienza che fa di Vittorini ancora oggi un maestro. La sua idea di cultura che, a quell’altezza di anni suscitò l’ira di Palmiro Togliatti, traccia una metodologia da cui partire, necessaria alla nostra civiltà come lo era stata allora, probabilmente non del tutto compresa. A suo tempo Vittorini ne uscì sconfitto e “Politecnico” fu chiuso. Ora sappiamo che aveva ragione.